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Le fonti di ispirazione della legislazione europea - Massimo Vari - Italie

mercredi, 20 mai 2009

 

 

1.- Premessa

Una riflessione sulle fonti di ispirazione della legislazione europea evoca, come si può intuire, un fondamentale quesito, al quale questo mio intervento cercherà di dar risposta, e cioè se e in qual misura il fenomeno dell'integrazione, cui assistiamo ormai da tempo nel Vecchio Continente, sia in grado di realizzare un ordinamento capace di porsi al servizio dell'uomo e delle sue aspettative, secondo un ideale di giustizia che superi il concetto della mera astratta legalità e consista, tenendo a mente l'insegnamento di Ulpiano, nel "cuique suum tribuere".

 

Un grande Maestro, a tutti noi caro, Giuseppe Capograssi, in un suo prezioso saggio (Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, in Opere, vol. VI, Milano 1959, p. 117), ben coglieva il senso della giustizia nell'epoca attuale, insegnandoci -con lungimirante preveggenza rispetto ai problemi che sarebbero poi drammaticamente esplosi ai giorni d'oggi- che esso è quello di "salvar l'individuo dalla violenza e dall'indifferenza degli altri e della società", perché "una società nella quale ci sia un uomo che non è sicuro del domani, che non ha le condizioni di vivere una vita umana, che è soffocato, nella sua umanità, nella capacità di svolgere la sua umanità, dalla miseria, non è una società umana".

 

Questa riflessione, dunque, sarebbe di scarsa utilità, ove non ci interrogassimo sulla sorte riservata nell'ordinamento europeo ai valori della persona, specie considerando il ruolo che, in epoca di declino degli ordinamenti chiusi di stampo ottocentesco, il costituzionalismo sembra oggi chiamato a svolgere. Il costituzionalismo che, già in passato, ha trovato linfa ed alimento nelle enunciazioni delle Convenzioni e delle Dichiarazioni universali, appare oggi rinvenire uno spazio ad esso congeniale proprio negli ordinamenti sopranazionali, di pari passo con la tendenza dei diritti dell'uomo a trascendere lo Stato, anzi ad imporsi, per forza propria, allo stesso diritto statual-legislativo.

 

Mi sembra, dunque, di poter osservare che è la stessa vocazione dei diritti della persona a caricare di particolari responsabilità l'ordinamento europeo, chiamato, così, a dar risposte ai problemi della connotazione multietnica e multiculturale della società; una società che sollecita un continuo confronto fra culture, costumi e modelli di comportamento, nella ricerca non solo delle categorie concettuali più adeguate a rappresentare la realtà in cui viviamo, ma soprattutto degli strumenti operativi più idonei a governare la complessità dell'esperienza per assicurare la convivenza possibile.

 

Si pensi, inoltre, ai problemi posti dalla globalizzazione in campo economico, all'attuale crisi finanziaria che sorpassa, nella sua incidenza, pressoché tutti gli altri problemi, trovando la sua causa non solo nella mancanza di regolazione e di trasparenza, ma anche nel modello della nostra moderna società; un modello basato sul consumo aggressivo e illimitato di risorse e, in definitiva, su un errato ordine di valori a scapito dei fondamenti della convivenza umana, rappresentati dalla dignità della persona e dal bene comune che dovrebbero abbracciare tutta l'umanità, oltre i confini dello spazio e del tempo.

 

Se a questo si aggiungono, infine, gli interrogativi posti dalle nuove frontiere della scienza, in particolare nel campo biologico, con problematiche che pervadono trasversalmente le società nazionali, è dato comprendere quanto sia illusoria l'idea che possano essere i singoli ordinamenti nazionali a fornire una risposta appagante a problemi cruciali che riguardano l'origine e il destino dell'Uomo.

 

Così, nella riscoperta, da più parti condivisa, del compito più autentico del diritto e della legge, secondo l'antico insegnamento del giureconsulto Ermogeniano (omne ius hominum causa constitutum est), un ordinamento, quale quello europeo, benché nato per ragioni connesse precipuamente alla realizzazione di interessi di carattere economico, appare caricarsi di attese ricche di implicazioni sul piano assiologico, anche in ragione dell'influenza che esso può avere sulla legislazione degli Stati membri, sospinti, sempre più, dall'ormai pacifico principio dell'applicabilità diretta e della primauté del diritto comunitario, verso standards normativi uniformi.

 



2. Il quadro normativo di riferimento

2.1. I Trattati Maastricht e di Amsterdam

Quanto all'attitudine dell'ordinamento comunitario a rispondere alle sfide dell'oggi, già nei Trattati più antichi si rinvengono, a dire il vero, riferimenti ai valori della solidarietà, della libertà e della pace.

Ma è soltanto a partire dagli anni '90 che, nel progredire del processo d'integrazione fra ordinamenti (mi riferisco in particolare al Trattato di Maastricht del 1993 e al Trattato di Amsterdam del 1997), trovano formale codificazione talune enunciazioni che, per la loro portata, possono ormai considerarsi cardini dell'ordinamento comunitario

Mi riferisco anzitutto alla norma (art. 6 del Trattato sull'Unione europea nella versione consolidata) la quale, sviluppando concetti già rinvenibili in nuce nel preambolo dell'Atto unico europeo del 1986, afferma che "l'Unione Europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri", e che nel contempo prevede che "l'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario".

Un'altra importante innovazione è stata l'introduzione della cittadinanza europea che, pur nel suo carattere di complemento della cittadinanza nazionale, può essere vista come uno status civitatis non solo riassuntivo di vari diritti (circolazione e soggiorno; partecipazione politica, ecc.) che ad essa si associano, secondo l'art. 17 del Trattato CE (nella versione consolidata), ma suscettibile di aprire la strada verso una più compiuta tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.

Va da sé che la nozione di cittadinanza, nell'epoca della società multietnica e multiculturale, necessita di un nucleo aggregante diverso dalle comuni radici storiche del popolo inteso come componente unitaria dello Stato nazionale; un nucleo aggregante da rinvenire, piuttosto, in un concetto sul quale avremo occasione di ritornare, e cioè nella premessa antropologico-culturale della dignità umana. In questa prospettiva la dignità della persona, intesa nella sua individualità e nelle manifestazioni della vita di relazione, sembrerebbe, perciò, destinata a costituire l'elemento intorno al quale costruire un nuovo concetto di cittadino, un concetto unitario che, superando quello di appartenenza allo Stato, valorizzi, al tempo stesso, la nozione di società civile, a sua volta evocativa di modelli ascrivibili a risalenti concezioni, come la società dell'epoca romana, connotata da una sua peculiare capacità di inclusione e di integrazione in favore degli altri popoli.

Non meno importante è la formale codificazione, ad opera del Trattato di Maastricht, del principio di sussidiarietà, a dire il vero non del tutto ignoto già alla precedente prassi normativa della Comunità, oggi contenuto nell'art. 5 del Trattato sulla Comunità europea, nella versione consolidata.

Il principio di sussidiarietà ripropone concetti risalenti nel tempo, sviluppati, sin dall'Ottocento, dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, in funzione del primato riservato alle comunità naturali e, in primo luogo, alla famiglia, sul fondamento che la libertà e la capacità di apporti originali di queste ultime non devono essere limitate o soffocate da un livello più alto di poteri.

La sussidiarietà, trascorrendo dal piano della filosofia sociale a quello dell'ordinamento giuridico ha finito per assumere il ruolo di criterio volto a favorire lo svolgimento di compiti rilevanti sul piano sociale da parte delle famiglie, delle associazioni e, in generale, delle istituzioni più vicine ai cittadini, suscitando così partecipazione e solidarietà tra le persone.

Nel contesto comunitario, essa significa che le istituzioni europee intervengono solo quando la loro opera appaia indispensabile, rimettendo per il resto alle istanze nazionali o regionali quelle discipline che, senza arrecare pregiudizio al processo di integrazione, appaiano meglio rispondere alle esigenze dei cittadini (art. 5 del Trattato sulla Comunità europea, già citato).

Alla luce dei principi ora ricordati, i Trattati di Maastricht e di Amsterdam possono essere considerati come una sorta di spartiacque fra due concezioni: prima una integrazione riferita essenzialmente al mercato, dopo una integrazione sempre più attenta ai valori della persona.

 

2.2. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea

In linea di continuità con tale più recente tendenza si pone la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000 e riproclamata con alcune modifiche a Strasburgo nel dicembre 2007, la quale ha la finalità non tanto di innovare, quanto piuttosto di riaffermare in modo espresso e solenne una serie di valori nella loro maggior parte già rinvenibili nel contesto costituito dai Trattati comunitari, dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, dalle Costituzioni degli Stati membri e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea.

La Carta contiene un ampio catalogo, nel quale si riverberano gran parte dei diritti ormai acquisiti nelle esperienze dell' Occidente, aggregati intorno ai sei capi di cui essa si compone, ciascuno dei quali fa riferimento ad un valore fondante: la dignità, la libertà, l'uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia.

L'affermazione della inviolabilità della dignità umana, con la quale si apre la Carta (art. 1), può considerarsi una sorta di emblema del moderno costituzionalismo, quasi una stella polare per l'interpretazione delle stesse Costituzioni.

 

Negli svolgimenti della cultura del continente europeo possiamo, senza risalire ai più remoti precedenti che ci riportano addirittura al pensiero di Cicerone e poi di Ulpiano, rinvenire le più immediate ascendenze culturali del principio della dignità dell'uomo nel Cristianesimo, che tanto peso ha avuto nella storia dell'Europa. Vista in questa prospettiva la centralità della dignità umana riflette l'antropocentrismo ebraico-cristiano, per il quale l'Uomo è da considerare "imago Dei".

Naturalmente, nella riflessione filosofica, non va ignorata l'attenzione dedicata all'argomento anche da altre culture maturate nel medesimo contesto storico, ma in una prospettiva laica: si pensi alla nota affermazione di Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi, secondo la quale la dignità dell'Uomo consiste nel fatto che egli non può mai essere considerato come un semplice mezzo, ma va considerato solo e sempre come un fine.

 

La dignità della persona trova nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea varie specificazioni concernenti il diritto alla vita (art. 2) e alla integrità della persona (art. 3), come pure la proibizione della tortura (art. 4), della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5). Dal canto suo, il principio di libertà, altro valore fondamentale della Carta, viene declinato nelle sue varie espressioni tra cui quella di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10), facendo avvertire una chiara connessione con quello di non discriminazione tra le persone, pur in essa presente (art. 21), ivi comprese le discriminazioni fondate sulla razza, l'origine etnica o sociale, la lingua e la religione.

 

Sulla libertà di religione va ricordato che l'articolo 10 della Carta, ricalcando in buona misura le analoghe norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, afferma che "ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione". La stessa norma precisa che "tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti".

La libertà di religione, garantita dalla Carta, evoca, a sua volta, il principio di laicità dello Stato, in ragione di quel rapporto di complementarietà che gli studiosi danno generalmente per scontato tra tale principio e valori etico-religiosi.

 

Quanto al principio di laicità, pur in presenza di talune incertezze ed oscillazioni riscontrabili all'interno degli Stati membri dell'Unione, la definizione più attendibile è quella secondo la quale la laicità comporta che i poteri pubblici non restino indifferenti verso la religione, bensì che ne riconoscano l'importanza nella realtà sociale, dichiarandosi tuttavia incompetenti a disciplinarla direttamente. Tanto meno il principio può essere inteso nel senso di consentire agli Stati di confinare la religione al di fuori della vita pubblica, secondo una concezione illuministica, che consideri la religione stessa come un fatto strettamente privato.

E' interessante, a questo proposito, una fondamentale sentenza della Corte costituzionale italiana, secondo la quale la laicità va intesa non come indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma "come garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" (sent. n. 203 del 1989).

 

In questa cornice di riferimenti v'è da chiedersi: esiste una dimensione europea della libertà religiosa?

L'articolo 17 del Trattato di Lisbona (versione consolidata, seconda parte) afferma che "l'Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale" e che "riconoscendone l'identità ed il contributo specifico, l'Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni".

 

Apparentemente, nella norma da ultimo citata, v'è una sorta di professione di incompetenza, sia pure nell'istituzionalizzazione del dialogo con tali chiese e organizzazioni. Ma nessuno può negare che anche qui esiste un problema di integrazione, tale da suggerire "alle chiese di ripensare se stesse in un'ottica continentale, anziché puramente nazionale, e quindi di ristrutturarsi per inserirsi in qualche modo nel cammino verso l'unità dei popoli europei" (Carlo Cardia). In questo senso esistono già delle iniziative delle varie chiese, come, ad esempio, nel caso della Co.me.ce. (Commission des Episcopats de la Communauté Européenne).

In aggiunta a tali considerazioni, vorrei rilevare che gli accadimenti hanno normalmente antefatti, premesse, talora così profondi da rimanere nascosti. E qui è il caso di avvertire che il discorso parte da lontano riportandoci alla Pace di Westfalia (1648) che pose fine alle guerre di religione, accettando i principi della tolleranza religiosa e della libertà di coscienza, sia pure con talune limitazioni.

Oggi, in epoca di declino della sovranità degli Stati nazionali, è plausibile ipotizzare un ordinamento europeo che, rifuggendo anch'esso dalle guerre di religione, si faccia garante, in un contesto di reciproco rispetto, di una realtà pluralista, fortemente caratterizzata in senso multiculturale e multireligioso, quale quella in cui viviamo.

Altri diritti garantiti dalla Carta riguardano: la privacy (art. 7), la partecipazione politica (artt. 39 e 40), la difesa in giudizio (art. 47 e 48), senza trascurare i diritti dei soggetti più deboli - minori (artt. 24 e 32), disabili (art. 26), generazioni future, lavoratori stranieri (art. 15) - come pure la lotta contro l'esclusione sociale e la povertà (art. 34).

Al tempo stesso, la Carta dà spazio a nuovi diritti: divieto delle pratiche eugenetiche (art. 3); protezione dei dati personali (art. 8); divieto di commercio di organi e clonazione riproduttiva degli esseri umani (art. 3).

 

Se si tiene presente il quadro ora delineato, è agevole sostenere che la Carta, fra le due possibili concezioni dell'Uomo, quella individualista propria della tradizione liberale classica e quella personalista, si sia orientata più per questa seconda opzione e cioè quella dell'essere umano inteso come persona, vale a dire come entità relazionale che, oltrepassando la visione kantiana, si realizza nel suo rapporto con il prossimo, alla luce dei principi di solidarietà e di responsabilità. Avvalora una simile concezione il preambolo stesso della Carta, ove si trova espressamente affermato che l'Unione europea "pone la persona al centro della sua azione". Si consideri, poi, la relazione di indivisibilità che il medesimo preambolo pone fra i valori della dignità, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà, creando tra essi un rapporto di interazione che ne esalta reciprocamente i contenuti.

Ulteriore conferma dell'accoglimento della visione personalistica sta nell'enunciazione, rinvenibile fra le premesse della Carta, secondo la quale il godimento dei diritti in essa codificati "fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri, come pure della comunità umana e delle generazioni future". Affermazione questa che, nel confermare l'elemento relazionale che lega le persone fra loro, ci richiama a una peculiare prospettiva universalistica dei diritti, che si espande ed abbraccia il futuro dell'Umanità; una prospettiva che, tra l'altro, impone all'Europa una riflessione sul proprio passato, specie se si considerano altre enunciazioni della Carta, quali quelle sulla proibizione della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani (art. 5), evocative delle degenerazioni che si sono verificate, tanto nell'epoca del colonialismo, quanto in quella dei totalitarismi del ventesimo secolo, contrassegnato da gravi violazioni dei diritti dell'uomo e della sua dignità.

Ad epilogo di questo processo evolutivo si colloca la recente modifica dei Trattati (Lisbona 13 dicembre 2007). A parte la rimodulazione dei rapporti tra le Istituzioni e i nuovi equilibri fra i poteri ad esse affidati, il Trattato di Lisbona (il quale entrerà in vigore non appena ratificato da tutti gli Stati) ha avuto il merito di sciogliere il nodo della natura della Carta, sancendo espressamente (art. 6 della prima parte) che "l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta" che, pertanto, è destinata ad assumere lo stesso valore giuridico dei Trattati.

 

 

3.- Gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria.

All'opera del legislatore si salda necessariamente quella del giudice comunitario, non essendo dubbio che l'effettività degli interessi si misuri con la loro giustiziabilità. "La previsione di efficienti garanzie giurisdizionali è l'indice, anzi il primo canone, della costruzione di un progredito ordinamento fra le nazioni : progredito nel senso in cui deve esserlo la civiltà giuridica della pace, che si allea con la democrazia e si pone al servizio della persona umana" (A. La Pergola).

 

L'esame della giurisprudenza dimostra che il giudice comunitario ha spesso anticipato nel tempo le previsioni dei Trattati e degli altri atti di normazione derivata, mettendo a fuoco una serie di principi che oggi ritroviamo esplicitamente codificati nella Carta dei diritti fondamentali, quali:

a) il principio del diritto al giusto procedimento;

b) il principio di irretroattività delle norme penali;

c) il diritto di difesa;

d) il diritto al rispetto della vita privata;

e) il principio di eguaglianza;

f) il principio del controllo giurisdizionale degli atti amministrativi.

 

Questi indiscutibili meriti della giurisprudenza comunitaria non possono far ignorare, tuttavia, la prospettiva economicistica, nella quale essa si è tradizionalmente mostrata incline a collocare il problema dei diritti dell'Uomo, legandone funzionalmente la tutela all'attuazione dell'ordinamento comunitario, nel senso che -come più volte affermato dalla Corte di Giustizia- tale tutela avviene "nell'ambito della struttura e delle finalità della Comunità". Se si esaminano i più antichi repertori della giurisprudenza comunitaria, si avverte, negli schemi argomentativi, una ricorrente ripetitività riconducibile, essenzialmente, a tre concetti :

  • la supremazia del diritto comunitario che si impone per forza propria agli ordinamenti nazionali;
  • la preminenza delle regole del mercato con la quale i diritti fondamentali devono necessariamente commisurarsi;
  • il principio di proporzionalità come metro valutativo della legittimità delle norme e degli atti emanati dalle Istituzioni comunitarie, e quindi anche di quelli che toccano e limitano i diritti dell'Uomo.

 

Come è risaputo, la proporzionalità nasce in Germania ancora prima dell'avvento dello Stato di diritto, in base al postulato che lo Stato, nel realizzarsi, non deve eccedere quanto è a ciò necessario. Si tratta, dunque, di una autolimitazione del potere sovrano nei confronti della quale la tutela dell'individuo si atteggia come mero effetto riflesso.

Per contro, nella concezione propria degli altri ordinamenti che collocano al centro la persona umana, come la Costituzione italiana, la prospettiva appare del tutto rovesciata: ponendo in primo piano l'Uomo anziché lo Stato (ovvero il potere sovrano) tali ordinamenti finiscono per accogliere una serie di aspettative che si debbono realizzare componendosi le une con le altre, attraverso un metodo di comparazione che è quello della ragionevolezza, intesa come ponderazione e graduazione dei valori costituzionalmente rilevanti e come mezzo per espungere dal sistema la logica dell'arbitrio e dell'ingiustizia.

 

Non mancano, tuttavia, nella giurisprudenza comunitaria, segnali di apertura verso una diversa concezione; segnali che si possono, ad esempio, cogliere nei richiami alla dignità umana contenuti in una sentenza della Corte di giustizia (9 ottobre 2001, in causa C377/98, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio) nella quale si afferma, a proposito della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, che "spetta alla Corte, in sede di verifica della conformità degli atti delle istituzioni ai principi generali del diritto comunitario, di vigilare sul rispetto del diritto fondamentale alla dignità umana ed all'integrità della persona".

Mi riferisco, inoltre, ad affermazioni come quella secondo la quale "la tutela dei diritti fondamentali (nella specie la libertà di riunione e di espressione garantita dagli articoli 10 e 11 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà garantita dal Trattato" (sentenza del 12 giugno 2003, causa C-112/2000 Schmidberger).

In un'altra più recente pronuncia (sentenza 14 ottobre 2004, C-36/2002, Omega), la Corte di Giustizia, dopo aver affermato che il rispetto della dignità umana fa parte dei principi generali del diritto comunitario, conclude nel senso che le esigenze di tutela dei diritti fondamentali ben possono giustificare limitazioni alle libertà economiche.

 

In tali sentenze si avverte, dunque, una diversa attenzione verso i valori della persona, in una prospettiva caratterizzata sempre più dal confronto e dalla ponderazione dei diversi interessi in gioco e quindi dalla tendenza al superamento di quella che è stata da taluno definita efficacemente la "unidimensionalità" del diritto comunitario. La considerazione che la giurisprudenza europea tende così a riservare agli interessi e ai diritti dell'uomo apre la via per il loro necessario bilanciamento con gli altri interessi di livello comunitario, escludendo, quindi, che le istituzioni della Comunità possano ormai perseguire unicamente il solo fine del corretto funzionamento del mercato.

In tal modo la giurisprudenza della Corte di giustizia, collocandosi sempre più in sintonia con quella delle Corti nazionali, contribuisce alla formazione di un quadro più stabile nei rapporti fra l'ordinamento sovranazionale e quelli nazionali, consentendo di prefigurare un sempre più compiuto e maturo sistema di garanzie per i diritti della persona. Un sistema fondato su un circuito comunicativo, nell'ambito del quale il diritto comunitario, si impone in virtù del cosiddetto "effetto diretto" alle legislazioni degli Stati membri, ma resta, a sua volta, subordinato, in virtù del richiamo fatto dai Trattati alle comuni tradizioni costituzionali, ai principi che la Corte di giustizia è tenuta a trarre dai fondamenti ispiratori delle Costituzioni nazionali.

Il rapporto dialogico, in tal modo instaurato tra gli ordinamenti risulta particolarme

nte importante nell'attuale epoca di forti correnti migratorie che fanno degli Stati nazionali il luogo dell'accoglienza. Segno della consapevolezza, da parte di questi ultimi, del ruolo ad essi assegnato è la prassi, che si va sempre più diffondendo tra gli Stati membri della Comunità, consistente nell'elaborazione di documenti che enunciano i principi fondamentali validi per i cittadini e gli immigrati e che riflettono il rispetto e l'accoglienza per le diversità di cultura e di religione, come nel caso della Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione adottata dal Ministro dell'interno italiano nel 2006. Questa, come scrive nell'Introduzione al Documento Carlo Cardia, "enuclea e declina i principi della Costituzione italiana e delle principali Carte europee ed internazionali dei Diritti umani", al fine di pervenire ad un "concetto unitario di cittadinanza e convivenza tra le diverse comunità nazionali, etniche e religiose" radicate sul territorio, coniugando diritti di libertà e diritti sociali da assicurare a tutti,con il rispetto delle legittime differenze di cultura e di religione.

 

 

4. Le linee di azione delle istituzioni europee

Seguendo le linee di tendenza sopra descritte, l'ordinamento comunitario evidenzia la concreta presenza di strutture organizzative e di forme di azione attraverso le quali l'Europa esprime, oggi, la sua attenzione verso le problematiche che la investono quale casa comune dei popoli europei e quale società a connotazione multietnica e multiculturale.

Mi riferisco in particolare: alle politiche di accoglienza e integrazione per i rifugiati e per i profughi; agli strumenti volti all'allargamento dell'Unione verso i Paesi dell'Europa centrale e orientale; ai programmi-quadro di ricerca che investono, tra l'altro, ampiamente le tematiche della democrazia e della società multietnica; alle azioni esterne, e cioè le spese della Comunità a favore dei Paesi terzi, nelle quali rientrano gli aiuti umanitari e alimentari, come pure le azioni co-finanziate con organizzazioni non governative che operano nei Paesi in via di sviluppo e le iniziative a favore della democrazia e dei diritti umani.

Per avere un'idea dell'importanza delle azioni esterne, occorre considerare che i fondi ad esse destinati, uniti alle dotazioni dei Fondi Europei di sviluppo (FES) - specialmente rivolte alla cooperazione con i Paesi dell'Africa sub-sahariana, dei Caraibi e del Pacifico - raggiungono importi che collocano la Comunità fra i cinque maggiori donatori mondiali, avvalorando l'idea di un'Europa non insensibile e non disattenta verso il mondo esterno, e in qualche modo anche disponibile a proporsi come società inclusiva.

 

 

5.- Integrazione europea e tradizione.

Oggi si discute tanto della Costituzione europea. Le riflessioni sopra svolte ci portano, tuttavia, a condividere l'avviso di chi sostiene che il problema dell'Europa non è tanto quello della Costituzione, giacché, se ci riferiamo alla Costituzione nel senso di struttura fondamentale dell'ordinamento, non è dubbio che anche l'Europa abbia una Costituzione, dalla quale sono destinate a trarre ispirazione non solo la legislazione comunitaria ma anche quelle nazionali, alla luce di quel primato del diritto comunitario che si impone, per forza propria, agli ordinamenti nazionali e che, perciò, è segno dell'esistenza in sé di una legge superiore europea.

Questo non esaurisce, tuttavia, l'esigenza di comporre la diversità e la varietà dei punti di vista che, nonostante la codificazione di principi ad opera degli ultimi Trattati, tuttora permangono su tanti temi. Basti pensare a temi quali quello della concezione della famiglia o ai tanti problemi posti oggi dalle nuove frontiere della genetica e della biologia e, più in generale, al rischio di una assolutizzazione della scienza che finisca per distruggere l'uomo.

 

Di fronte agli importanti nodi che restano tuttora da sciogliere, a partire dalla stessa difficoltà di accertare le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, occorre considerare che il superamento degli ordinamenti chiusi di derivazione napoleonica, se da una parte induce alla rielaborazione dei fondamenti della nostra organizzazione politica, fa riaffiorare, dall'altra, idee e concezioni che, nella storia della cultura e della civiltà europea, hanno continuato a sopravvivere come patrimonio comune nonostante la formazione e il consolidamento degli Stati nazionali. È quel sotterraneo perdurare (Weitergelten) del diritto romano, nonostante le codificazioni del XIX secolo, di cui ci parla la dottrina tedesca e che, se ci volgiamo all'indietro, ci consente di constatare come l'attuale processo d'integrazione si innesti in un percorso molto risalente, attenuato o addirittura interrotto proprio dal divenire degli Stati. Oltrepassando lo schermo delle codificazioni l'esperienza contemporanea finisce per riportarci allo ius commune e, in definitiva, all'eredità romana che, da un certo punto della storia, si salda con quella del Cristianesimo. Dell'esperienza giuridica romana è il caso di sottolineare tre connotazioni: una concezione del diritto orientata, quale ars boni et aequi, ad un ideale di giustizia non formale, bensì sostanziale, l'importanza del diritto naturale che di tale esperienza è parte integrante e, infine, il modello di società inclusiva e tendenzialmente aperta da essa proposto. Possono essere proprio queste connotazioni a offrire un paradigma per superare le difficoltà di un'Europa chiamata, sempre più di frequente, a rappresentare una comunanza di principi fra i Paesi che la compongono, su tanti problemi trasversali che i singoli Stati non sono in grado di risolvere, tra i quali uno dei più importanti è quello dell'immigrazione che, come si legge nell'Introduzione alla Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione, già innanzi citata, costituisce un fenomeno ormai strutturale, "complesso da governare", specialmente sul terreno dell'integrazione, ma che, al tempo stesso, si presenta "ricco di opportunità per la società ospitante".

 

 

 


[1] Testo provvisorio suscettibile di revisione. In caso di divergenza fra testo scritto ed esposizione orale fa fede quest'ultima.

 

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