1. Premessa
Il fenomeno religioso dà luogo all'interno della società a organizzazioni particolari i cui componenti manifestano la appartenenza ad un ordine che pretende un rango diverso rispetto a quello politico generale. La tensione che ne deriva spazia fra due estremi:
1) quello rappresentato dal modello della identificazione fra potere religioso e potere civile,
2) l'altro, conosciuto nella esperienza contemporanea di alcune società occidentali, consistente nella esclusione del fenomeno religioso dall'ambito del potere civile.
Nel mondo medioevale e nell'epoca premoderna il fondamento storico della "laicità" può rinvenirsi nel riconoscimento - teorizzato dalla Chiesa a partire dalla fine del V secolo (Papa Gelasio, Lettera all'imperatore Anastasio, fine del V secolo) - che potere religioso e potere civile riguardano sfere distinte e dotate ciascuna di una propria autonomia. Ma proprio questo riconoscimento è alla radice del carattere problematico dei reciproci rapporti, in quanto le due parti "furono sì in grado di distinguere le loro sfere di competenze, a seconda che si trattasse dell'uomo «esteriore» o di quello «interiore», ma, nel rivendicare ambedue il proprio diritto sull'uomo concreto, dovettero necessariamente scontrarsi" (R. Fröehlich). Tale confronto dialettico è destinato a continuare fino a quando il fenomeno religioso e quello politico avranno luogo, sicché può affermarsi che la formula dello Stato "laico" delinea il quadro complessivo entro il quale gli ordinamenti contemporanei intendono collocare tale processo dialettico.
Il prevalere dell'orientamento affermatosi dallo Stato moderno sino a quello liberale di escludere un fondamento esterno all'ordinamento giuridico e la conseguente pretesa di fondare la propria legittimazione esclusivamente all'interno dello stesso ordinamento giuridico comportano che il rapporto fra pubblici poteri e fenomeno religioso si conforma in relazione alle peculiari modalità con le quali questo rapporto è vissuto all'interno del corpo sociale (Bertolini). Tale circostanza spiega le diverse interpretazioni del principio della laicità dello Stato, le quali, pur movendo dal presupposto comune della distinzione fra la sfera religiosa e quella civile, giungono poi a declinare il concetto in termini differenti.
In ambito europeo possono distinguersi il modello della indifferenza dello Stato verso le fedi religiose, con conseguente necessaria "neutralità degli apparati pubblici dinanzi alle istanze emergenti di tempo in tempo dalla comunità" a prescindere dalla loro intrinseca natura e dal loro contenuto, da quello della valorizzazione del principio pluralista e del recupero della specificità del fenomeno religioso in quanto tale (artt. 7 e 8, secondo comma, della Costituzione italiana).
Questo secondo modello comporta "il passaggio dalla concezione negativa della libertà religiosa ... ad una concezione eminentemente positiva" con il conseguente intervento fattivo dello Stato nella regolazione degli istituti attraverso i quali si estrinseca la religiosità dei consociati tramite "una legislazione sempre più attenta e minuziosa ... che da un lato attiva, a livello comunitario, le libertà dei singoli e dall'altro legittima le diversità, religiose ed ideologiche" (Cardia), implicando necessariamente non la neutralità dell'ordinamento, ma invece la sua apertura al radicamento di valori per la qualificazione dei suoi scopi (S. Mangiameli).
Per quanto lo stesso principio della neutralità religiosa possa assumere significati diversi (ad es. c.d. laicità tradizionale o liberale o laicità alla francese, connotata, quest'ultima, da anticlericalismo e da antireligiosità), deve ritenersi che una caratteristica comune di tale principio è quella di considerare che "le scelte religiose della persona sono senz'alcun dubbio legittime, ma rilevano solo nell'ambito privato, senza trascendere nel pubblico e nel socialmente rilevante" (Bettetini).
Di contro la laicità intesa come attitudine dello Stato a favorire e a valorizzare l'esercizio della libertà religiosa e di culto (es. c.d. laicità positiva) non esclude un ruolo delle chiese nella sfera pubblica in ragione della loro collaborazione con lo Stato (Corte costituzionale italiana, sentenza n. 203/1989) fino a promuovere l'accoglienza (es. c.d. laicità aperta) anche delle diverse forme del religioso, talora anche lontane da quelle tradizionali (Randazzo).
A ben vedere la formula dello Stato laico come Stato "neutrale" pone il problema della adesione sostanziale dell'ordinamento ad una concezione dell'individuo, problema che, secondo tale modello, si risolve, invece, presupponendo una visione fondata sul "postulato" individualistico-liberale; diversamente, la tesi della laicità come riconoscimento "attivo" del pluralismo religioso riconosce al confronto tra le diverse fedi o visioni del mondo (anche aconfessionali) la possibilità di concorrere al riconoscimento di una verità data sull'uomo.
D'altro canto, la definizione della laicità come principio supremo dell'ordinamento costituzionale (affermato in Italia nella citata sentenza n. 203/1989 della Corte costituzionale) scaturisce proprio dal dinamico confronto politico-sociale in riferimento ai valori della vita reale in relazione ai quali opera la stessa interpretazione costituzionale. Difatti la nozione della laicità come principio supremo non può non risentire fortemente dei modi concreti con cui nella collettività (singoli e gruppi, anche religiosi) viene avvertita la rilevanza del fenomeno religioso, il posto che esso deve occupare nella vita sociale, il senso dei rapporti fra i fedeli delle diverse confessioni fra loro, dei rapporti dei credenti con i non credenti e con la comunità nel suo insieme organizzata a Stato (Bertolini).
Infatti, la società plurale, in luogo della società religiosamente omogenea impone di ricomporre in un quadro di insieme le diverse istanze etico-culturali e trovare le regole comuni tra identità e nuove libertà, evitando il pericolo di creare comunità parallele che segnino il prevalere della fedeltà alle comunità particolari di appartenenza a discapito dello Stato.
A tale riguardo deve rilevarsi che lo sforzo del pensiero filosofico di fine seicento sulla "laicità" è ben rappresentato dalla Epistola sulla tolleranza di John Locke, secondo il quale "nessuna pace e sicurezza, e tanto meno comune amicizia, si potrà stabilire tra gli uomini fino a quando prevarrà lì opinione per cui l'autorità è fondata sulla grazia e la religione deve essere diffusa con la forza delle armi". La prospettiva delle dottrine di tipo lockiano teorizza una forma di indifferenza etica in cui la tolleranza sarebbe non un fine, un valore etico primario, bensì la via più adatta a garantire la sicurezza dei cittadini. Mentre una "tolleranza" di tal genere può trovare una sua giustificazione in una società monoculturale, più complessa e probabilmente insufficiente è la trasposizione di detto approccio con riferimento ad una società multiculturale.
Per questa ragione lo stesso mondo occidentale è chiamato a ripensare lo stesso concetto di "tolleranza".
2. Europa e questione islamica.
A questo riguardo va evidenziato quanto affermato nella Risoluzione sull'Islam e la giornata europea di Averroè del 16 settembre 1998 e cioè che "la società europea poggia su basi pluriculturali, plurietniche e plurireligiose che sono parte essenziale del suo patrimonio e della sua identità pluralistica" nonché sul "profondo attaccamento ai valori della libertà, del pluralismo, della democrazia e dei diritti umani, della tolleranza, del riconoscimento e del rispetto dell'altro", come anche sancito nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite.
Per questa ragione, prosegue la Risoluzione, occorre considerare che anche i valori religiosi costituiscono elemento di identificazione dei gruppi sociali, con la conseguente necessita di approfondire la reciproca conoscenza delle culture e della società mediterranea, attraverso "un dialogo inteso e continuo con i paesi islamici e i gruppi socialmente rilevanti all'interno del mondo islamico, con l'obiettivo di rafforzare e sviluppare le tendenze democratiche e pluraliste, di pervenire al riconoscimento dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani; il che implica una separazione netta fra la legge dello Stato e i precetti religiosi, condizione indispensabile per il rispetto dei diritti e delle libertà in una società multiculturale ed etnicamente composita".
Tali affermazioni sono state ulteriormente maturate e consolidate nella formulazione dell'art. 17 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (versione consolidata), laddove si afferma che "l'Unione europea rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale" e che "riconoscendone l'identità ed il contributo, l'Unione europea mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni".
L'orientamento dell'Unione europea sembra pertanto qualificabile come "laicità del dialogo" (più che dell'accoglienza, accezione che sembra evocare un improprio approccio paternalistico), che rinuncia sì a disciplinare direttamente il fenomeno religioso ma nell'intento di una istituzionalizzazione del dialogo con dette chiese e organizzazioni intende valorizzare l'inserimento anche delle comunità religiose quale quella islamica nel contesto culturale e civile dell'Unione, nel rispetto della reciproca identità.
In questo contesto i problemi cruciali con cui l'Europa deve confrontarsi sono:
1) l'immedesimazione dell'identità culturale del mondo islamico nella dimensione religiosa;
2) la non compiuta realizzazione del processo di separazione tra nozione di legge civile e legge religiosa.
Per promuovere l'integrazione politica e istituzionale tra le due culture, quella europea e quella islamica occorre:
1) il riconoscimento del valore primario della esperienza religiosa nella manifestazione della dinamica della società civile (accogliendo dunque l'accezione della laicità positiva o aperta);
2) affermare il primato della persona umana con il riconoscimento dei diritti inviolabili nella costruzione politica e sociale di ogni ordinamento.
In questo modo si ribadisce che non è lo Stato ma è la persona il centro del progetto di ogni struttura politica e istituzionale, bilanciando, per questa via, il rifiuto di approcci di negazione della espressa manifestazione della dimensione religiosa anche nella sfera istituzionale degli Stati europei.
In tale direzione si muovono le recenti Costituzioni afgana e irakena, che affermano sì il principio che la religione islamica è il credo ufficiale del singolo Stato, ma statuiscono anche la separazione della legge religiosa islamica dal dettato normativo statale. Esse, inoltre, riconoscono il pluralismo rappresentativo politico regolato da meccanismi di controllo secondo i principi della separazione dei poteri, della reciproca tolleranza, in particolare attraverso la tutela dei diritti fondamentali della persona umana (Galantini).
La centralità del rispetto della persona umana come elemento identitario dell'ordinamento comunitario, e dunque da valorizzare quale patrimonio comune anche per le comunità religiose islamiche che intendano integrarsi negli Stati dell'Unione, è ribadito anche nella Risoluzione del Parlamento europeo sulle donne il fondamentalismo del 24 ottobre 2006, laddove si afferma che "il rispetto, la promozione e la protezione dei diritti umani rappresentano l'aquis dell'Unione europea e sono una delle chiavi di cooperazione europea, così come nelle relazioni tra l'Unione europea e i suoi Stati membri e altri paesi", sicché "i diritti della donna sanciti dai trattati e dalle convenzioni internazionali non possono essere limitati né trasgrediti con il pretesto di interpretazioni religiose, di tradizioni culturali, di costumi e di legislazioni".
L'importanza del dialogo interreligioso ai fini dell'integrazione interculturale è sottolineata inoltre da numerosi documenti approvati a livello istituzionale comunitario ed internazionale. Nella Dichiarazione sul dialogo interreligioso e sulla coesione sociale, approvata dalla Conferenza organizzata dalla Presidenza del Consiglio dell'Unione europea nell'ottobre 2003, si afferma che il "dialogo può oggi dare un contributo significativo allo sviluppo di una società libera, ordinata e coesa, e che aiuta a superrare l'estremismo filosofico e religioso". La Dichiarazione è stata approvata e fatta propria dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea nella riunione del 12 dicembre 2003. Anche il documento finale, approvato nel settembre 2006 dalla Conferenza internazionale sul tema Dialogo interreligioso e cooperazione interreligiosa, svoltasi dopo il terzo vertice di Europa (Varsavia, maggio 2005), afferma che i "valori e i principi universali che costituiscono il patrimonio comune dei popoli e la vera fonte della libertà individuale, della libertà politica ... non devono essere in contraddizione con le tradizioni culturali e religiose del nostro continente e non devono essere contestati né messi in discussione". Infine, la risoluzione n. 59/23, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite sul tema "Promozione del dialogo tra le religioni", afferma tra l'altro "que la compréhension mutuelle et le dialogue entre les religions costituent des dimensions importantes du dialogue entre les civilisations et de la culture de la paix".
Nell'attuale trasformazione della società europea in senso multiculturale e multireligioso, particolare rilevanza poi assumono quelle iniziative volte a promuovere processi di integrazione e di inclusione delle comunità di immigrati e delle comunità religiose, in adempimento della previsione del Trattato inteso a favorire un "dialogo aperto, trasparente e regolare con le chiese e le associazioni o comunità religiose" (v. citato art. 17 Trattato sul funzionamento dell'UE).
Ma l'Unione europea o i singoli non possono sostituirsi alle confessioni religiose dettando le regole della loro organizzazione, né imporre per legge uno schema rappresentativo valido per tutti. Occorre dunque che le comunità religiose trovino in se stesse le ragioni della propria identità ed elaborino forme e strumenti della propria rappresentatività. Al riguardo, se è vero che l'Islam ha una forte tradizione unitaria dal punto di vista religioso, è anche vero che esso è connotato da una forte tradizione autonomistica che esclude strutture centralizzate o gerarchiche, sicché gli immigrati europei di religione islamica tendono ad aggregarsi in modo frammentato in ragione delle specifiche origini nazionali ed esperienze socio-religiose.
Nella difficoltà di individuare rappresentanze legittime in Italia non è stato ancora possibile concludere apposite intese ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost., con la comunità islamica, che è divenuta la seconda religione più praticata nel Paese.
Va però vista con grande favore l'approvazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione (avvenuta con decreto del Ministro dell'interno del 23 aprile 2007) elaborata con il contributo delle principali comunità di immigrati, delle comunità religiose maggiormente presenti nella realtà italiana, nonché dei componenti della Consulta per l'Islam italiano operativa presso il Ministero dell'interno (in vista di una aggregazione federativa che aspiri al riconoscimento giuridico e in prospettiva ad un'Intesa con lo Stato italiano), per rendere espliciti i principi fondamentali della persona umana riconosciuti nel nostro ordinamento, in primo luogo i principi di libertà e di tolleranza, che regolano la vita collettiva dei cittadini e degli immigrati nel rispetto delle reciproche identità.
El Islam, al igual que el cristianismo, es una religión de carácter universal con una fuerte vocación expansiva que en el último siglo, al menos en Europa, ha ido asentándose de manera gradual como consecuencia, entre otros factores, del fenómeno de la inmigración.
La presencia islámica en España es un fenómeno social bastante reciente (exceptuando el período histórico en el que España fue dar el-Islam). Si exceptuamos a una parte de la población nativa de Ceuta y Melilla, los primeros musulmanes que llegan a España, en un número notable, son los estudiantes procedentes de oriente medio, sobre todo a las Facultades de Medicina, a finales de los años sesenta. De esa época data la constitución de las primeras comunidades religiosas islámicas en nuestro país. Posteriormente, en los años setenta, algunos jóvenes españoles conversos al Islam crearon algunas de las comunidades que posteriormente darían lugar a la Federación Española de Entidades Religiosas Islámicas (FEERI). Finalmente, la inmigración de mano de obra, procedente sobre todo del Reino de Marruecos, aumentó paulatinamente durante los años ochenta hasta el gran boom de los años 90[1] hasta el punto de que hoy día se trata del segundo colectivo en importancia en nuestro país, por detrás de la inmigración que proviene de Sudamérica.
Ahora bien, el reconocimiento del Islam y su implantación en la sociedad española no ha sido fácil como consecuencia de una serie de características. Por un lado, se trata de una religión que posee una fuerte vocación monista que tiende por un lado a abarcar lo temporal y lo religioso y por otro a regular todo de acuerdo con los preceptos religiosos del Corán y de la Sunna por lo que en ocasiones, la práctica religiosa externa puede tener un carácter más social que espiritual.
Esto significa que el Estado, para garantizar el derecho de libertad religiosa del que son titulares el individuo y la confesión, ha de intentar conciliar la legislación nacional con el ejercicio de aquellas prácticas religiosas que trascienden el ámbito espiritual para convertirse en modos de actuar dentro de la sociedad; actuaciones que además siempre responden a una observancia rigurosa y puntual de la Sharia.
La situación se complica al no haber un único intérprete de las fuentes normativas que componen la Sharia, aunque existan algunos puntos en los que no es posible la divergencia. Y es que, a diferencia de lo que ocurre con otras confesiones, el Islam es una religión que carece de una organización jerárquica unitaria, lo que se traduce en que el Estado en numerosas ocasiones tiene problemas para encontrar un interlocutor válido de la misma con el que poder negociar o desarrollar, de manera conjunta, aquellas materias que afectan a ambos. A ello me referiré más adelante.
Para poder hablar de la situación jurídica actual del Islam en nuestro país considero imprescindible realizar un breve análisis de cuál ha sido el tratamiento que históricamente se ha dado a éste dentro de nuestro ordenamiento. Ciertamente esto implica un riesgo ya que remontarse en exceso en el tiempo llevaría a que el verdadero objeto de este estudio se desdibujase y, lo que es más importante, supondría además un ejercicio propio de un historiador del derecho.
Pese a todo me van a permitir que haga una breve referencia a lo acontecido en los últimos treinta años de nuestra historia. Decidir acotar el análisis a ese período se debe a que ha sido en esta etapa en la que se ha producido una transición desde una concepción confesional del Estado hasta el momento actual, en el que podemos subrayar, sin temor a equivocarnos, que España es un Estado aconfesional o cuando menos neutral en materia religiosa.
Con la extinción del régimen del general Franco y la promulgación de la Constitución de 1978, se produjo un cambio radical en la regulación del fenómeno religioso. La Constitución sienta las bases de un Estado social y de Derecho y establece un nuevo sistema de relaciones Estado-Iglesias, creándose las condiciones necesarias para la existencia de una auténtica libertad religiosa. El artículo 16[2] del texto constitucional garantiza la libertad ideológica, religiosa y de culto para el individuo y los grupos con la única limitación del mantenimiento del orden público. Afirma que nadie podrá ser obligado a declarar sobre sus creencias y finalmente establece como modelo un Estado no confesional en el que se tendrán en cuenta las creencias religiosas de la sociedad y donde se mantendrán relaciones de cooperación con la Iglesia católica y las demás confesiones religiosas.
Pero no es éste el único artículo del texto constitucional que se refiere al fenómeno religioso. Se ha de poner en relación con aquellos otros en los que se proclama la responsabilidad de los poderes públicos para promover las condiciones para que la libertad y la igualdad del individuo y de los grupos sean reales y efectivas[3], la igualdad religiosa[4], la interpretación de los derechos y libertades fundamentales de acuerdo a los tratados y acuerdos internacionales ratificados por España[5], o el derecho de los padres a elegir la formación religiosa o moral de sus hijos[6]. Y junto a estos artículos, existen otros que también van a influir sobre el modelo final de Derecho eclesiástico: la libertad de cátedra[7], la libertad de creación de centros docentes[8], etc...
Además, se derivan de la Constitución cuatro principios que van a ser guía de las relaciones entre el Estado y las Iglesias:
En primer lugar, el principio de libertad religiosa. La libertad religiosa ya no es entendida únicamente como un derecho fundamental, de titularidad individual y colectiva, que haya de ser reconocido y protegido sino que tambiénb va a ser puesto en relación con la actitud que el Estado adoptará frente al fenómeno religioso.
El segundo principio es el de neutralidad y no confesionalidad. El Estado ha de ser imparcial frente a las diferentes opciones religiosas. Profesar una religión no es una libertad o derecho que el Estado pueda ejercer. El Estado no puede ser creyente.
El tercer principio, conforme a lo estipulado en el artículo 14 de la Constitución, será el de igualdad y no discriminación por motivos religiosos, tanto del individuo como de los grupos.
El cuarto principio es el de cooperación y construye nuestro sistema de relaciones entre el Estado y las Iglesias o comunidades religiosas. El Estado entiende la cooperación como la predisposición a facilitar y promover las condiciones que hacen posible el acto de fe y los diversos aspectos o manifestaciones que derivan del mismo, y esa predisposición se expresa en el propósito de llegar a un entendimiento con los sujetos colectivos de la libertad religiosa para regular aquellas expresiones del fenómeno religioso con trascendencia jurídica en el derecho estatal. En consecuencia, ha de asumir su deber de promoción de la libertad religiosa y reconocer a los grupos religiosos como ámbito a través del cual el individuo puede desarrollar su libertad religiosa.
En 1980, desarrollando el artículo 16 de la Constitución y fruto de los principios constitucionales a los que me he referido, se promulgó la Ley Orgánica de Libertad Religiosa (LOLR)[9], que introdujo una novedad en nuestro sistema que supuso un giro radical en la concepción del sistema de fuentes del derecho eclesiástico español: se estableció la posibilidad de que el Estado firmase acuerdos de cooperación con confesiones distintas de la católica, algo que anteriormente sólo era posible en el sistema alemán e italiano y que ha sido adoptado recientemente en el portugués. Para ello será necesario que el grupo religioso esté inscrito en un Registro de Entidades Religiosas (RER)[10] y que además por su ámbito y número de creyentes hayan obtenido notorio arraigo[11].
Aunque el asociacionismo religioso musulmán en España fue lento y poco significativo hasta la década de los años 90[12], la presencia histórica del Islam en nuestro país facilitó que fuera declarado confesión de notorio arraigo en julio de 1989 comenzando en enero de 1991 las negociaciones entre el Estado y FEERI para la consecución del Acuerdo, negociaciones a las que se sumó UCIDE. Como quiera que el Acuerdo tenía que ser firmado por un único interlocutor, el Estado obligó a que ambas se federaran y constituyesen el 18 de febrero de 1992 la Comisión Islámica de España (CIE). Esta Comisión se convertía en la portavoz de las comunidades islámicas en nuestro país de tal manera que ese mismo año España firmó un acuerdo con la CIE[13].
Ahora bien, aunque la firma de este acuerdo supuso un hito en el sistema de relaciones entre el Estado y las comunidades musulmanas, también es cierto que no ha venido a resolver totalmente el problema de las relaciones estatales con dichas comunidades y ello, a mi juicio, por varios motivos.
En primer lugar, la Ley nada decía acerca de establecer acuerdos con Federaciones de comunidades religiosas. El art. 7 sólo se refiere a la posibilidad de que las Iglesias, Confesiones o Comunidades religiosas puedan firmar acuerdos de cooperación. El legislador, haciendo caso omiso del texto de la Ley, obligó a las comunidades religiosas a federarse en la CIE y eso conllevó, por un lado, la pérdida de capacidad negociadora frente al Estado pues las comunidades tenían intereses diferentes y por otro, aunque la CIE fue creada con el fin de ser el interlocutor de los musulmanes en nuestro país, lo cierto es que no ha sido capaz de llevar esta misión a buen puerto. Las tensiones existentes entre las dos grandes federaciones que la componen (FEERI y UCIDE), unido a la intención de otras comunidades islámicas por integrarse en ella y formar parte de la misma, ha derivado en un bloqueo del funcionamiento de la CIE.
Es por tanto necesario un replanteamiento de este órgano de representación de las comunidades islámicas en nuestro país. No puede permitirse que los problemas de una comunidad musulmana en una determinada ciudad, provincia o comunidad autónoma siga dependiendo de una dirección que está en Madrid y que es poco sensible a esos problemas. Quizás la solución estaría en la creación de un órgano con un único Presidente y un Consejo Permanente compuesto por los representantes de las diferentes comunidades islámicas presentes en cada uno de los territorios autonómicos. Se trataría de un órgano colegiado en el que el Presidente tendría voto de calidad, pero en el que todas las sensibilidades autonómicas estarían representadas. Al mismo tiempo, cada Comunidad Autónoma reproduciría el esquema seguido con la CIE y enviaría a su representante a la Comisión Permanente en Madrid. De esta manera no sólo todas las comunidades de cada territorio estarían representadas frente al Gobierno central sino que además estos Consejo autonómicos se convertirían en el interlocutor válido frente a la Administración autonómica.
En segundo lugar, el acuerdo firmado en 1992, si bien cumplió su función en aquel momento, hoy no responde a las necesidades de las comunidades religiosas y se ha convertido en un simple acuerdo marco en el que el desarrollo legislativo del texto está encontrando dificultades pues no todos los grupos integrados en la CIE están dispuestos a defender los mismos intereses.
Además, realmente el texto de los acuerdos otorga unas ventajas que ya tenían las comunidades religiosas por el mero hecho de estar inscritas en el RER. En este sentido el texto del acuerdo ofrecía la posibilidad de obtener ventajas fiscales; prestar asistencia religiosa en Fuerzas Armadas, Hospitales y Prisiones; la posibilidad de que se impartiese enseñanza religiosa en los colegios; la alimentación y el sacrificio de animales conforme a determinados ritos religiosos; la eficacia civil de los matrimonios contraídos en forma religiosa; la inhumación según determinados ritos religiosos o el establecimiento de festividades religiosas en el calendario laboral. Pero todo ello sometido a un desarrollo legislativo posterior, que en algunos casos ya existía y que en otros todavía está pendiente de ser promulgado.
Pese a todo, los avances desde la firma del Acuerdo han sido más que sobresalientes. Desde el punto de vista de la legislación estatal, se reconoce eficacia civil al matrimonio celebrado en forma religiosa islámica; los ministros de culto islámicos han sido integrados en el régimen general de la Seguridad Social y asimilados a los trabajadores por cuenta ajena; se reconoce la asistencia religiosa en las Fuerzas Armadas y los centros penitenciarios aunque no existe un compromiso económico del Estado para sufragar la misma; se reconoce el derecho de acceso a los medios públicos de comunicación; se le reconocen las mismas ventajas y exenciones fiscales y tributarias de que goza la Iglesia católica, aunque no se ha previsto todavía un sistema de financiación directa; y en el ámbito laboral, se está realizando un esfuerzo porque en los convenios colectivos firmados entre sindicatos y empresarios, se reconozcan las festividades religiosas, el descanso semanal y se atienda a la especificidad de la celebración de fiestas como la del Ramadán. Todo ello, mediante la búsqueda de la conciliación entre los intereses del trabajador musulmán y los derechos del empresario aplicando el principio de acomodación razonable en aplicación de lo dispuesto en la Directiva europea 2000/78 de no discriminación por motivos religiosos, que fue transpuesta a nuestro ordenamiento a través de la Ley 62/2003.
Ahora bien, las características de nuestro sistema de organización política ha hecho que el sistema de relaciones Estado-Iglesias opere en varios niveles. Por un lado el Estado es competente para regular determinadas materias mientras que por otro, son las Comunidades Autónomas las que deben regular aquellas materias que les han sido transferidas.
De esta manera, las Comunidades autónomas, en las materias en las que son competentes, tienen la posibilidad de desarrollar legislativamente las previsiones contenidas en el Acuerdo de 1992. La cuestión es que, en ocasiones, los gobiernos autonómicos no han sabido dar respuesta a las demandas presentadas por las comunidades religiosas establecidas en su territorio bien por falta de voluntad política, bien por desconocimiento, bien porque se han remitido a una legislación acordada que ya entendían suficiente, bien porque no ha existido un entendimiento con los interlocutores de las comunidades religiosas. El establecimiento de mezquitas y lugares de culto, la puesta en marcha de la contratación de profesores de religión islámica en los centros docentes, o una regulación coherente en relación con el sacrificio ritual y la alimentación religiosa son algunas de las cuestiones que todavía no han sido resueltas por el legislador autonómico o local.
Y todo ello a pesar de que en los últimos años han sido varios los acuerdos que -en materia de conservación de patrimonio histórico-artístico, de enseñanza religiosa en los centros docentes y de asistencia religiosa- han firmado algunas comunidades autónomas con confesiones religiosas que ya tenían firmados acuerdos a nivel nacional. Es el caso de la Comunidad Autónoma de Madrid y la de Cataluña, y está prevista la firma de acuerdos por otras Comunidades Autónomas. Incluso los ayuntamientos y otros organismos dependientes del Estado han establecido acuerdos con estas confesiones en materias propias de su competencia. Así ha ocurrido en algunos Ayuntamientos con el establecimiento de parcelas dentro de los cementerios para realizar enterramientos conforme al rito musulmán.
El problema es que, en ocasiones, estos acuerdos siguen siendo normas esencialmente programáticas que no añaden nada nuevo a lo establecido en el acuerdo de 1992. Tal vez porque el interlocutor para la negociación sigue siendo la CIE y no las comunidades religiosas islámicas implantadas en el territorio de cada Comunidad autónoma. Este es el motivo por el que creemos necesario que exista un Consejo Islámico en cada territorio que sea el que se ofrezca como interlocutor de la Administración. Sólo así será posible que las comunidades religiosas puedan trasladar sus problemas a la Administración y que ésta pueda dar respuesta a las mismas haciendo posible el ya referido mandato constitucional[14] que obliga a los poderes públicos a promover las condiciones para que la libertad y la igualdad, en este caso religiosas, de los individuos y los grupos sean reales y efectivas.
Ello no perjudicaría el papel de la CIE a nivel estatal sino que más bien lo reforzaría ya que permitiría que en un futuro la negociación con la Administración para resolver posibles conflictos y proponer soluciones fuese llevada a cabo, bien en el ámbito nacional bien en el autonómico, por aquellos que son los verdaderos representantes de las comunidades interesadas.
Déjenme terminar con unas breves reflexiones, consecuencia de lo anteriormente expuesto.
El marco legal creado por el legislador español para proteger y desarrollar el derecho fundamental de libertad religiosa del individuo y de los grupos religiosos es quizás uno de los más garantistas de la Europa occidental. La LOLR y el sistema de acuerdos Estado-Iglesia nos muestra el interés del legislador estatal y autonómico por proteger y promocionar la libertad religiosa. Pero además, mi impresión es que el sistema todavía no está terminado. De hecho, es una realidad que el Gobierno está trabajando en una nueva ley de libertad religiosa que de satisfacción a todas aquellas cuestiones que el ejercicio del derecho fundamental sigue planteando y que en su momento no fueron contempladas por el legislador. Además, la transferencia a las Comunidades autónomas de competencias legislativas en materias en las que el hecho religioso tiene protagonismo ha supuesto el replanteamiento de las políticas eclesiásticas en los diferentes gobiernos regionales. Bien sea a través de acuerdos bien mediante disposiciones legislativas unilaterales, lo cierto es que en diferentes comunidades autónomas se está legislando teniendo en cuenta las especiales características de las comunidades musulmanas.
Pero en ocasiones, la ausencia de una legislación que solucione los problemas relacionados con el ejercicio del derecho de libertad religiosa no puede sin más ser achacado únicamente a los poderes públicos. La falta de un interlocutor válido, que represente a todas las comunidades islámicas bien a nivel estatal bien autonómico, ha supuesto en ocasiones un retraso en la solución de un conflicto o lo que es peor, la suspensión de medidas que una vez adoptadas por la administración no se han podido aplicar por falta de voluntad de los líderes de dichas comunidades. Por eso también es necesario superar la dinámica de conflicto que, en ocasiones, existe dentro de la CIE. De hecho, a mi juicio, la refundación de la CIE puede ser una solución para lograr un mayor entendimiento con las diferentes administraciones públicas y así intentar mejorar el acuerdo firmado en 1992.
El Islam en España es una realidad, pero su futuro no depende únicamente de aquello que quieran los poderes públicos. Estos ya han establecido un marco jurídico en el que las comunidades religiosas pueden actuar. Ahora sólo falta que éstas sean conscientes del espacio en el que deben trabajar y que lo hagan en la misma dirección para así conseguir de los poderes públicos que el ejercicio del derecho de libertad religiosa tanto por parte del individuo como del grupo o comunidad en la que se integra, sea real y efectivo.
[1] Según datos publicados por la Unión de Comunidades Islámicas de España (UCIDE) el 28 de diciembre de 2008, un total de 1.130.000 residentes en España son musulmanes y existen además 33.750 españoles conversos. Del número de inmigrantes musulmanes, son Cataluña (con 280.000 aproximadamente), Madrid (197.000 aprox.), Andalucía (185.000 aprox.) y Valencia (131.000 aprox.) las Comunidades Autónomas que congregan al 70% de los mismos, siendo, además, más de la mitad de los mismos ciudadanos del Reino de Marruecos.
[2] "1.- Se garantiza la libertad ideológica, religiosa y de culto de los individuos y las comunidades sin más limitación, en sus manifestaciones, que la necesaria para el mantenimiento del orden público protegido por la ley.
2.- Nadie podrá ser obligado a declarar sobre su ideología, religión o creencias.
3.- Ninguna confesión tendrá carácter estatal. Los poderes públicos tendrán en cuenta las creencias religiosas de la sociedad española y mantendrán las consiguientes relaciones de cooperación con la Iglesia católica y las demás confesiones".
[3] Artículo 9.2 "Corresponde a los poderes públicos promover las condiciones para que la libertad y la igualdad del individuo y de los grupos en que se integra sean reales y efectivas; remover los obstáculos que impidan o dificulten su plenitud y facilitar la participación de todos los ciudadanos en la vida política, económica, cultural y social".
[4] Artículo 14 "Los españoles son iguales ante la ley, sin que pueda prevalecer discriminación alguna por razón de nacimiento, raza, sexo, religión, opinión, o cualquier otra condición o circunstancia personal o social".
[5] Artículo 10.2 "Las normas relativas a los derechos fundamentales y a las libertades que la Constitución reconoce, se interpretarán de conformidad con la Declaración Universal de Derechos Humanos y los tratados y acuerdos internacionales sobre las mismas materias ratificados por España".
[6] Artículo 27.3 "Los poderes públicos garantizan el derecho que asiste a los padres para que sus hijos reciban la formación religiosa y moral que esté de acuerdo con sus propias convicciones".
[7] Artículo 20.1 c) reconoce la protección del derecho "A la libertad de cátedra".
[8] Artículo 27.6 señala que "Se reconoce a las personas físicas y jurídicas la libertad de creación de centros docentes, dentro del respeto a los principios constitucionales".
[9] Ley Orgánica 7/1980, de 5 de julio, de Libertad Religiosa
[10] El RER fue creado mediante el RD 142/1981, de 9 de enero y hasta el momento hay inscritas en el mismo más 650 comunidades islámicas. De las mismas, la gran mayoría de éstas pertenecen a la Unión de Comunidades Islámicas de España (UCIDE) y el resto a la Federación de Entidades Religiosas Islámicas de España (FEERI).
[11] Vid. art. 7 de la LOLR.
[12] Hasta ese momento únicamente se habían inscrito en el RER 17 comunidades islámicas, muchas de ellas constituidas y dirigidas por conversos.
[13] Ley 26/1992, de 10 de noviembre, por la que se aprueba el Acuerdo de Cooperación del Estado con la Comisión Islámica de España.
[14] Vid. art. 9.2 de la Constitución.
1.- Premessa
Una riflessione sulle fonti di ispirazione della legislazione europea evoca, come si può intuire, un fondamentale quesito, al quale questo mio intervento cercherà di dar risposta, e cioè se e in qual misura il fenomeno dell'integrazione, cui assistiamo ormai da tempo nel Vecchio Continente, sia in grado di realizzare un ordinamento capace di porsi al servizio dell'uomo e delle sue aspettative, secondo un ideale di giustizia che superi il concetto della mera astratta legalità e consista, tenendo a mente l'insegnamento di Ulpiano, nel "cuique suum tribuere".
Un grande Maestro, a tutti noi caro, Giuseppe Capograssi, in un suo prezioso saggio (Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, in Opere, vol. VI, Milano 1959, p. 117), ben coglieva il senso della giustizia nell'epoca attuale, insegnandoci -con lungimirante preveggenza rispetto ai problemi che sarebbero poi drammaticamente esplosi ai giorni d'oggi- che esso è quello di "salvar l'individuo dalla violenza e dall'indifferenza degli altri e della società", perché "una società nella quale ci sia un uomo che non è sicuro del domani, che non ha le condizioni di vivere una vita umana, che è soffocato, nella sua umanità, nella capacità di svolgere la sua umanità, dalla miseria, non è una società umana".
Questa riflessione, dunque, sarebbe di scarsa utilità, ove non ci interrogassimo sulla sorte riservata nell'ordinamento europeo ai valori della persona, specie considerando il ruolo che, in epoca di declino degli ordinamenti chiusi di stampo ottocentesco, il costituzionalismo sembra oggi chiamato a svolgere. Il costituzionalismo che, già in passato, ha trovato linfa ed alimento nelle enunciazioni delle Convenzioni e delle Dichiarazioni universali, appare oggi rinvenire uno spazio ad esso congeniale proprio negli ordinamenti sopranazionali, di pari passo con la tendenza dei diritti dell'uomo a trascendere lo Stato, anzi ad imporsi, per forza propria, allo stesso diritto statual-legislativo.
Mi sembra, dunque, di poter osservare che è la stessa vocazione dei diritti della persona a caricare di particolari responsabilità l'ordinamento europeo, chiamato, così, a dar risposte ai problemi della connotazione multietnica e multiculturale della società; una società che sollecita un continuo confronto fra culture, costumi e modelli di comportamento, nella ricerca non solo delle categorie concettuali più adeguate a rappresentare la realtà in cui viviamo, ma soprattutto degli strumenti operativi più idonei a governare la complessità dell'esperienza per assicurare la convivenza possibile.
Si pensi, inoltre, ai problemi posti dalla globalizzazione in campo economico, all'attuale crisi finanziaria che sorpassa, nella sua incidenza, pressoché tutti gli altri problemi, trovando la sua causa non solo nella mancanza di regolazione e di trasparenza, ma anche nel modello della nostra moderna società; un modello basato sul consumo aggressivo e illimitato di risorse e, in definitiva, su un errato ordine di valori a scapito dei fondamenti della convivenza umana, rappresentati dalla dignità della persona e dal bene comune che dovrebbero abbracciare tutta l'umanità, oltre i confini dello spazio e del tempo.
Se a questo si aggiungono, infine, gli interrogativi posti dalle nuove frontiere della scienza, in particolare nel campo biologico, con problematiche che pervadono trasversalmente le società nazionali, è dato comprendere quanto sia illusoria l'idea che possano essere i singoli ordinamenti nazionali a fornire una risposta appagante a problemi cruciali che riguardano l'origine e il destino dell'Uomo.
Così, nella riscoperta, da più parti condivisa, del compito più autentico del diritto e della legge, secondo l'antico insegnamento del giureconsulto Ermogeniano (omne ius hominum causa constitutum est), un ordinamento, quale quello europeo, benché nato per ragioni connesse precipuamente alla realizzazione di interessi di carattere economico, appare caricarsi di attese ricche di implicazioni sul piano assiologico, anche in ragione dell'influenza che esso può avere sulla legislazione degli Stati membri, sospinti, sempre più, dall'ormai pacifico principio dell'applicabilità diretta e della primauté del diritto comunitario, verso standards normativi uniformi.
2. Il quadro normativo di riferimento
2.1. I Trattati Maastricht e di Amsterdam
Quanto all'attitudine dell'ordinamento comunitario a rispondere alle sfide dell'oggi, già nei Trattati più antichi si rinvengono, a dire il vero, riferimenti ai valori della solidarietà, della libertà e della pace.
Ma è soltanto a partire dagli anni '90 che, nel progredire del processo d'integrazione fra ordinamenti (mi riferisco in particolare al Trattato di Maastricht del 1993 e al Trattato di Amsterdam del 1997), trovano formale codificazione talune enunciazioni che, per la loro portata, possono ormai considerarsi cardini dell'ordinamento comunitario
Mi riferisco anzitutto alla norma (art. 6 del Trattato sull'Unione europea nella versione consolidata) la quale, sviluppando concetti già rinvenibili in nuce nel preambolo dell'Atto unico europeo del 1986, afferma che "l'Unione Europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri", e che nel contempo prevede che "l'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario".
Un'altra importante innovazione è stata l'introduzione della cittadinanza europea che, pur nel suo carattere di complemento della cittadinanza nazionale, può essere vista come uno status civitatis non solo riassuntivo di vari diritti (circolazione e soggiorno; partecipazione politica, ecc.) che ad essa si associano, secondo l'art. 17 del Trattato CE (nella versione consolidata), ma suscettibile di aprire la strada verso una più compiuta tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.
Va da sé che la nozione di cittadinanza, nell'epoca della società multietnica e multiculturale, necessita di un nucleo aggregante diverso dalle comuni radici storiche del popolo inteso come componente unitaria dello Stato nazionale; un nucleo aggregante da rinvenire, piuttosto, in un concetto sul quale avremo occasione di ritornare, e cioè nella premessa antropologico-culturale della dignità umana. In questa prospettiva la dignità della persona, intesa nella sua individualità e nelle manifestazioni della vita di relazione, sembrerebbe, perciò, destinata a costituire l'elemento intorno al quale costruire un nuovo concetto di cittadino, un concetto unitario che, superando quello di appartenenza allo Stato, valorizzi, al tempo stesso, la nozione di società civile, a sua volta evocativa di modelli ascrivibili a risalenti concezioni, come la società dell'epoca romana, connotata da una sua peculiare capacità di inclusione e di integrazione in favore degli altri popoli.
Non meno importante è la formale codificazione, ad opera del Trattato di Maastricht, del principio di sussidiarietà, a dire il vero non del tutto ignoto già alla precedente prassi normativa della Comunità, oggi contenuto nell'art. 5 del Trattato sulla Comunità europea, nella versione consolidata.
Il principio di sussidiarietà ripropone concetti risalenti nel tempo, sviluppati, sin dall'Ottocento, dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, in funzione del primato riservato alle comunità naturali e, in primo luogo, alla famiglia, sul fondamento che la libertà e la capacità di apporti originali di queste ultime non devono essere limitate o soffocate da un livello più alto di poteri.
La sussidiarietà, trascorrendo dal piano della filosofia sociale a quello dell'ordinamento giuridico ha finito per assumere il ruolo di criterio volto a favorire lo svolgimento di compiti rilevanti sul piano sociale da parte delle famiglie, delle associazioni e, in generale, delle istituzioni più vicine ai cittadini, suscitando così partecipazione e solidarietà tra le persone.
Nel contesto comunitario, essa significa che le istituzioni europee intervengono solo quando la loro opera appaia indispensabile, rimettendo per il resto alle istanze nazionali o regionali quelle discipline che, senza arrecare pregiudizio al processo di integrazione, appaiano meglio rispondere alle esigenze dei cittadini (art. 5 del Trattato sulla Comunità europea, già citato).
Alla luce dei principi ora ricordati, i Trattati di Maastricht e di Amsterdam possono essere considerati come una sorta di spartiacque fra due concezioni: prima una integrazione riferita essenzialmente al mercato, dopo una integrazione sempre più attenta ai valori della persona.
2.2. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
In linea di continuità con tale più recente tendenza si pone la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000 e riproclamata con alcune modifiche a Strasburgo nel dicembre 2007, la quale ha la finalità non tanto di innovare, quanto piuttosto di riaffermare in modo espresso e solenne una serie di valori nella loro maggior parte già rinvenibili nel contesto costituito dai Trattati comunitari, dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, dalle Costituzioni degli Stati membri e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea.
La Carta contiene un ampio catalogo, nel quale si riverberano gran parte dei diritti ormai acquisiti nelle esperienze dell' Occidente, aggregati intorno ai sei capi di cui essa si compone, ciascuno dei quali fa riferimento ad un valore fondante: la dignità, la libertà, l'uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia.
L'affermazione della inviolabilità della dignità umana, con la quale si apre la Carta (art. 1), può considerarsi una sorta di emblema del moderno costituzionalismo, quasi una stella polare per l'interpretazione delle stesse Costituzioni.
Negli svolgimenti della cultura del continente europeo possiamo, senza risalire ai più remoti precedenti che ci riportano addirittura al pensiero di Cicerone e poi di Ulpiano, rinvenire le più immediate ascendenze culturali del principio della dignità dell'uomo nel Cristianesimo, che tanto peso ha avuto nella storia dell'Europa. Vista in questa prospettiva la centralità della dignità umana riflette l'antropocentrismo ebraico-cristiano, per il quale l'Uomo è da considerare "imago Dei".
Naturalmente, nella riflessione filosofica, non va ignorata l'attenzione dedicata all'argomento anche da altre culture maturate nel medesimo contesto storico, ma in una prospettiva laica: si pensi alla nota affermazione di Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi, secondo la quale la dignità dell'Uomo consiste nel fatto che egli non può mai essere considerato come un semplice mezzo, ma va considerato solo e sempre come un fine.
La dignità della persona trova nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea varie specificazioni concernenti il diritto alla vita (art. 2) e alla integrità della persona (art. 3), come pure la proibizione della tortura (art. 4), della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5). Dal canto suo, il principio di libertà, altro valore fondamentale della Carta, viene declinato nelle sue varie espressioni tra cui quella di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10), facendo avvertire una chiara connessione con quello di non discriminazione tra le persone, pur in essa presente (art. 21), ivi comprese le discriminazioni fondate sulla razza, l'origine etnica o sociale, la lingua e la religione.
Sulla libertà di religione va ricordato che l'articolo 10 della Carta, ricalcando in buona misura le analoghe norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, afferma che "ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione". La stessa norma precisa che "tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti".
La libertà di religione, garantita dalla Carta, evoca, a sua volta, il principio di laicità dello Stato, in ragione di quel rapporto di complementarietà che gli studiosi danno generalmente per scontato tra tale principio e valori etico-religiosi.
Quanto al principio di laicità, pur in presenza di talune incertezze ed oscillazioni riscontrabili all'interno degli Stati membri dell'Unione, la definizione più attendibile è quella secondo la quale la laicità comporta che i poteri pubblici non restino indifferenti verso la religione, bensì che ne riconoscano l'importanza nella realtà sociale, dichiarandosi tuttavia incompetenti a disciplinarla direttamente. Tanto meno il principio può essere inteso nel senso di consentire agli Stati di confinare la religione al di fuori della vita pubblica, secondo una concezione illuministica, che consideri la religione stessa come un fatto strettamente privato.
E' interessante, a questo proposito, una fondamentale sentenza della Corte costituzionale italiana, secondo la quale la laicità va intesa non come indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma "come garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" (sent. n. 203 del 1989).
In questa cornice di riferimenti v'è da chiedersi: esiste una dimensione europea della libertà religiosa?
L'articolo 17 del Trattato di Lisbona (versione consolidata, seconda parte) afferma che "l'Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale" e che "riconoscendone l'identità ed il contributo specifico, l'Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni".
Apparentemente, nella norma da ultimo citata, v'è una sorta di professione di incompetenza, sia pure nell'istituzionalizzazione del dialogo con tali chiese e organizzazioni. Ma nessuno può negare che anche qui esiste un problema di integrazione, tale da suggerire "alle chiese di ripensare se stesse in un'ottica continentale, anziché puramente nazionale, e quindi di ristrutturarsi per inserirsi in qualche modo nel cammino verso l'unità dei popoli europei" (Carlo Cardia). In questo senso esistono già delle iniziative delle varie chiese, come, ad esempio, nel caso della Co.me.ce. (Commission des Episcopats de la Communauté Européenne).
In aggiunta a tali considerazioni, vorrei rilevare che gli accadimenti hanno normalmente antefatti, premesse, talora così profondi da rimanere nascosti. E qui è il caso di avvertire che il discorso parte da lontano riportandoci alla Pace di Westfalia (1648) che pose fine alle guerre di religione, accettando i principi della tolleranza religiosa e della libertà di coscienza, sia pure con talune limitazioni.
Oggi, in epoca di declino della sovranità degli Stati nazionali, è plausibile ipotizzare un ordinamento europeo che, rifuggendo anch'esso dalle guerre di religione, si faccia garante, in un contesto di reciproco rispetto, di una realtà pluralista, fortemente caratterizzata in senso multiculturale e multireligioso, quale quella in cui viviamo.
Altri diritti garantiti dalla Carta riguardano: la privacy (art. 7), la partecipazione politica (artt. 39 e 40), la difesa in giudizio (art. 47 e 48), senza trascurare i diritti dei soggetti più deboli - minori (artt. 24 e 32), disabili (art. 26), generazioni future, lavoratori stranieri (art. 15) - come pure la lotta contro l'esclusione sociale e la povertà (art. 34).
Al tempo stesso, la Carta dà spazio a nuovi diritti: divieto delle pratiche eugenetiche (art. 3); protezione dei dati personali (art. 8); divieto di commercio di organi e clonazione riproduttiva degli esseri umani (art. 3).
Se si tiene presente il quadro ora delineato, è agevole sostenere che la Carta, fra le due possibili concezioni dell'Uomo, quella individualista propria della tradizione liberale classica e quella personalista, si sia orientata più per questa seconda opzione e cioè quella dell'essere umano inteso come persona, vale a dire come entità relazionale che, oltrepassando la visione kantiana, si realizza nel suo rapporto con il prossimo, alla luce dei principi di solidarietà e di responsabilità. Avvalora una simile concezione il preambolo stesso della Carta, ove si trova espressamente affermato che l'Unione europea "pone la persona al centro della sua azione". Si consideri, poi, la relazione di indivisibilità che il medesimo preambolo pone fra i valori della dignità, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà, creando tra essi un rapporto di interazione che ne esalta reciprocamente i contenuti.
Ulteriore conferma dell'accoglimento della visione personalistica sta nell'enunciazione, rinvenibile fra le premesse della Carta, secondo la quale il godimento dei diritti in essa codificati "fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri, come pure della comunità umana e delle generazioni future". Affermazione questa che, nel confermare l'elemento relazionale che lega le persone fra loro, ci richiama a una peculiare prospettiva universalistica dei diritti, che si espande ed abbraccia il futuro dell'Umanità; una prospettiva che, tra l'altro, impone all'Europa una riflessione sul proprio passato, specie se si considerano altre enunciazioni della Carta, quali quelle sulla proibizione della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani (art. 5), evocative delle degenerazioni che si sono verificate, tanto nell'epoca del colonialismo, quanto in quella dei totalitarismi del ventesimo secolo, contrassegnato da gravi violazioni dei diritti dell'uomo e della sua dignità.
Ad epilogo di questo processo evolutivo si colloca la recente modifica dei Trattati (Lisbona 13 dicembre 2007). A parte la rimodulazione dei rapporti tra le Istituzioni e i nuovi equilibri fra i poteri ad esse affidati, il Trattato di Lisbona (il quale entrerà in vigore non appena ratificato da tutti gli Stati) ha avuto il merito di sciogliere il nodo della natura della Carta, sancendo espressamente (art. 6 della prima parte) che "l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta" che, pertanto, è destinata ad assumere lo stesso valore giuridico dei Trattati.
3.- Gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria.
All'opera del legislatore si salda necessariamente quella del giudice comunitario, non essendo dubbio che l'effettività degli interessi si misuri con la loro giustiziabilità. "La previsione di efficienti garanzie giurisdizionali è l'indice, anzi il primo canone, della costruzione di un progredito ordinamento fra le nazioni : progredito nel senso in cui deve esserlo la civiltà giuridica della pace, che si allea con la democrazia e si pone al servizio della persona umana" (A. La Pergola).
L'esame della giurisprudenza dimostra che il giudice comunitario ha spesso anticipato nel tempo le previsioni dei Trattati e degli altri atti di normazione derivata, mettendo a fuoco una serie di principi che oggi ritroviamo esplicitamente codificati nella Carta dei diritti fondamentali, quali:
a) il principio del diritto al giusto procedimento;
b) il principio di irretroattività delle norme penali;
c) il diritto di difesa;
d) il diritto al rispetto della vita privata;
e) il principio di eguaglianza;
f) il principio del controllo giurisdizionale degli atti amministrativi.
Questi indiscutibili meriti della giurisprudenza comunitaria non possono far ignorare, tuttavia, la prospettiva economicistica, nella quale essa si è tradizionalmente mostrata incline a collocare il problema dei diritti dell'Uomo, legandone funzionalmente la tutela all'attuazione dell'ordinamento comunitario, nel senso che -come più volte affermato dalla Corte di Giustizia- tale tutela avviene "nell'ambito della struttura e delle finalità della Comunità". Se si esaminano i più antichi repertori della giurisprudenza comunitaria, si avverte, negli schemi argomentativi, una ricorrente ripetitività riconducibile, essenzialmente, a tre concetti :
- la supremazia del diritto comunitario che si impone per forza propria agli ordinamenti nazionali;
- la preminenza delle regole del mercato con la quale i diritti fondamentali devono necessariamente commisurarsi;
- il principio di proporzionalità come metro valutativo della legittimità delle norme e degli atti emanati dalle Istituzioni comunitarie, e quindi anche di quelli che toccano e limitano i diritti dell'Uomo.
Come è risaputo, la proporzionalità nasce in Germania ancora prima dell'avvento dello Stato di diritto, in base al postulato che lo Stato, nel realizzarsi, non deve eccedere quanto è a ciò necessario. Si tratta, dunque, di una autolimitazione del potere sovrano nei confronti della quale la tutela dell'individuo si atteggia come mero effetto riflesso.
Per contro, nella concezione propria degli altri ordinamenti che collocano al centro la persona umana, come la Costituzione italiana, la prospettiva appare del tutto rovesciata: ponendo in primo piano l'Uomo anziché lo Stato (ovvero il potere sovrano) tali ordinamenti finiscono per accogliere una serie di aspettative che si debbono realizzare componendosi le une con le altre, attraverso un metodo di comparazione che è quello della ragionevolezza, intesa come ponderazione e graduazione dei valori costituzionalmente rilevanti e come mezzo per espungere dal sistema la logica dell'arbitrio e dell'ingiustizia.
Non mancano, tuttavia, nella giurisprudenza comunitaria, segnali di apertura verso una diversa concezione; segnali che si possono, ad esempio, cogliere nei richiami alla dignità umana contenuti in una sentenza della Corte di giustizia (9 ottobre 2001, in causa C377/98, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio) nella quale si afferma, a proposito della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, che "spetta alla Corte, in sede di verifica della conformità degli atti delle istituzioni ai principi generali del diritto comunitario, di vigilare sul rispetto del diritto fondamentale alla dignità umana ed all'integrità della persona".
Mi riferisco, inoltre, ad affermazioni come quella secondo la quale "la tutela dei diritti fondamentali (nella specie la libertà di riunione e di espressione garantita dagli articoli 10 e 11 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà garantita dal Trattato" (sentenza del 12 giugno 2003, causa C-112/2000 Schmidberger).
In un'altra più recente pronuncia (sentenza 14 ottobre 2004, C-36/2002, Omega), la Corte di Giustizia, dopo aver affermato che il rispetto della dignità umana fa parte dei principi generali del diritto comunitario, conclude nel senso che le esigenze di tutela dei diritti fondamentali ben possono giustificare limitazioni alle libertà economiche.
In tali sentenze si avverte, dunque, una diversa attenzione verso i valori della persona, in una prospettiva caratterizzata sempre più dal confronto e dalla ponderazione dei diversi interessi in gioco e quindi dalla tendenza al superamento di quella che è stata da taluno definita efficacemente la "unidimensionalità" del diritto comunitario. La considerazione che la giurisprudenza europea tende così a riservare agli interessi e ai diritti dell'uomo apre la via per il loro necessario bilanciamento con gli altri interessi di livello comunitario, escludendo, quindi, che le istituzioni della Comunità possano ormai perseguire unicamente il solo fine del corretto funzionamento del mercato.
In tal modo la giurisprudenza della Corte di giustizia, collocandosi sempre più in sintonia con quella delle Corti nazionali, contribuisce alla formazione di un quadro più stabile nei rapporti fra l'ordinamento sovranazionale e quelli nazionali, consentendo di prefigurare un sempre più compiuto e maturo sistema di garanzie per i diritti della persona. Un sistema fondato su un circuito comunicativo, nell'ambito del quale il diritto comunitario, si impone in virtù del cosiddetto "effetto diretto" alle legislazioni degli Stati membri, ma resta, a sua volta, subordinato, in virtù del richiamo fatto dai Trattati alle comuni tradizioni costituzionali, ai principi che la Corte di giustizia è tenuta a trarre dai fondamenti ispiratori delle Costituzioni nazionali.
Il rapporto dialogico, in tal modo instaurato tra gli ordinamenti risulta particolarme
nte importante nell'attuale epoca di forti correnti migratorie che fanno degli Stati nazionali il luogo dell'accoglienza. Segno della consapevolezza, da parte di questi ultimi, del ruolo ad essi assegnato è la prassi, che si va sempre più diffondendo tra gli Stati membri della Comunità, consistente nell'elaborazione di documenti che enunciano i principi fondamentali validi per i cittadini e gli immigrati e che riflettono il rispetto e l'accoglienza per le diversità di cultura e di religione, come nel caso della Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione adottata dal Ministro dell'interno italiano nel 2006. Questa, come scrive nell'Introduzione al Documento Carlo Cardia, "enuclea e declina i principi della Costituzione italiana e delle principali Carte europee ed internazionali dei Diritti umani", al fine di pervenire ad un "concetto unitario di cittadinanza e convivenza tra le diverse comunità nazionali, etniche e religiose" radicate sul territorio, coniugando diritti di libertà e diritti sociali da assicurare a tutti,con il rispetto delle legittime differenze di cultura e di religione.
4. Le linee di azione delle istituzioni europee
Seguendo le linee di tendenza sopra descritte, l'ordinamento comunitario evidenzia la concreta presenza di strutture organizzative e di forme di azione attraverso le quali l'Europa esprime, oggi, la sua attenzione verso le problematiche che la investono quale casa comune dei popoli europei e quale società a connotazione multietnica e multiculturale.
Mi riferisco in particolare: alle politiche di accoglienza e integrazione per i rifugiati e per i profughi; agli strumenti volti all'allargamento dell'Unione verso i Paesi dell'Europa centrale e orientale; ai programmi-quadro di ricerca che investono, tra l'altro, ampiamente le tematiche della democrazia e della società multietnica; alle azioni esterne, e cioè le spese della Comunità a favore dei Paesi terzi, nelle quali rientrano gli aiuti umanitari e alimentari, come pure le azioni co-finanziate con organizzazioni non governative che operano nei Paesi in via di sviluppo e le iniziative a favore della democrazia e dei diritti umani.
Per avere un'idea dell'importanza delle azioni esterne, occorre considerare che i fondi ad esse destinati, uniti alle dotazioni dei Fondi Europei di sviluppo (FES) - specialmente rivolte alla cooperazione con i Paesi dell'Africa sub-sahariana, dei Caraibi e del Pacifico - raggiungono importi che collocano la Comunità fra i cinque maggiori donatori mondiali, avvalorando l'idea di un'Europa non insensibile e non disattenta verso il mondo esterno, e in qualche modo anche disponibile a proporsi come società inclusiva.
5.- Integrazione europea e tradizione.
Oggi si discute tanto della Costituzione europea. Le riflessioni sopra svolte ci portano, tuttavia, a condividere l'avviso di chi sostiene che il problema dell'Europa non è tanto quello della Costituzione, giacché, se ci riferiamo alla Costituzione nel senso di struttura fondamentale dell'ordinamento, non è dubbio che anche l'Europa abbia una Costituzione, dalla quale sono destinate a trarre ispirazione non solo la legislazione comunitaria ma anche quelle nazionali, alla luce di quel primato del diritto comunitario che si impone, per forza propria, agli ordinamenti nazionali e che, perciò, è segno dell'esistenza in sé di una legge superiore europea.
Questo non esaurisce, tuttavia, l'esigenza di comporre la diversità e la varietà dei punti di vista che, nonostante la codificazione di principi ad opera degli ultimi Trattati, tuttora permangono su tanti temi. Basti pensare a temi quali quello della concezione della famiglia o ai tanti problemi posti oggi dalle nuove frontiere della genetica e della biologia e, più in generale, al rischio di una assolutizzazione della scienza che finisca per distruggere l'uomo.
Di fronte agli importanti nodi che restano tuttora da sciogliere, a partire dalla stessa difficoltà di accertare le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, occorre considerare che il superamento degli ordinamenti chiusi di derivazione napoleonica, se da una parte induce alla rielaborazione dei fondamenti della nostra organizzazione politica, fa riaffiorare, dall'altra, idee e concezioni che, nella storia della cultura e della civiltà europea, hanno continuato a sopravvivere come patrimonio comune nonostante la formazione e il consolidamento degli Stati nazionali. È quel sotterraneo perdurare (Weitergelten) del diritto romano, nonostante le codificazioni del XIX secolo, di cui ci parla la dottrina tedesca e che, se ci volgiamo all'indietro, ci consente di constatare come l'attuale processo d'integrazione si innesti in un percorso molto risalente, attenuato o addirittura interrotto proprio dal divenire degli Stati. Oltrepassando lo schermo delle codificazioni l'esperienza contemporanea finisce per riportarci allo ius commune e, in definitiva, all'eredità romana che, da un certo punto della storia, si salda con quella del Cristianesimo. Dell'esperienza giuridica romana è il caso di sottolineare tre connotazioni: una concezione del diritto orientata, quale ars boni et aequi, ad un ideale di giustizia non formale, bensì sostanziale, l'importanza del diritto naturale che di tale esperienza è parte integrante e, infine, il modello di società inclusiva e tendenzialmente aperta da essa proposto. Possono essere proprio queste connotazioni a offrire un paradigma per superare le difficoltà di un'Europa chiamata, sempre più di frequente, a rappresentare una comunanza di principi fra i Paesi che la compongono, su tanti problemi trasversali che i singoli Stati non sono in grado di risolvere, tra i quali uno dei più importanti è quello dell'immigrazione che, come si legge nell'Introduzione alla Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione, già innanzi citata, costituisce un fenomeno ormai strutturale, "complesso da governare", specialmente sul terreno dell'integrazione, ma che, al tempo stesso, si presenta "ricco di opportunità per la società ospitante".
[1] Testo provvisorio suscettibile di revisione. In caso di divergenza fra testo scritto ed esposizione orale fa fede quest'ultima.
- Evoquer l'organisation du culte musulman en droit français quand on est un responsable public est à la fois une anomalie, une nécessité et une difficulté.
Introduction : panorama du fait religieux en Europe.
L'europe : un continent qui a toujours été religieusement très divers.
Même si cette mixité n'a pas toujours, loin s'en faut été synonyme de tolérance et de coexistence pacifique, force est de constater que l'Europe, au sens géographique du terme, c'est-à-dire le continent européen a vu s'établir à travers l'histoire des populations sectatrices de religions différentes.
Je pense ici évidemment à la présence, très importante jusqu'à la deuxième guerre mondiale de la population juive, estimée à 9, 5 millions, notamment en Europe de l'Est, puisque la Pologne comptait 3 millions de juifs en 1933, ce chiffre n'étant plus que de 45 000 en 1950...[1]
Mais également au sein de la chrétienté majoritaire à la coexistence des mondes catholiques et protestants, certains pays comme l'Allemagne avec 32 % de catholiques et 40 % de protestants[2] étant symboliques de cette diversité, qui a souvent été, notamment en Irlande mais également en France à l'origine d'affrontements violents.
Enfin, l'orthodoxie majoritaire en Europe Orientale, revivifiée depuis la chute du Mur de Berlin explique bien des alliances géostratégiques, je pense ici aux liens entre la Russie et la Serbie.
Et pour rester dans les Balkans, comment ne pas évoquer les européens de confession musulmane qui peuplent cette région depuis des siècles et qui forment la majorité de la population dans certains pays, comme l'Albanie ou la Bosnie-Herzégovine et nouvellement le Kosovo [3].
Bien sûr, s'il fallait un jour voir la Turquie intégrer l'Union Européenne, le nombre de musulmans augmenterait considérablement en Europe puisque ce pays compte 71 millions d'habitants dont 99 % sont musulmans...
Mais cette présence « historique » des musulmans sur le continent européen a été considérablement renforcée ces dernières années par l'arrivée de musulmans d'origine non européenne.
Evidemment, bien souvent les nouveaux musulmans européens ne savent pas qu'ils sont installés sur des terres où il y a bien longtemps leurs coreligionnaires étaient implantés.
Et pour illustrer cette affirmation j'ai plaisir à citer ici à Fès en terre marocaine l'un d'entre eux, l'un d'entre-vous , le célèbre Ibn Battuta, le Marco Polo de l'Islam qui écrivait en l'an 1350 : « Je visitais encore à Grenade, le cheikh des cheikh, supérieur des soufis, le jurisconsulte Abou 'Ali 'Omar. Je restais quelques jours dans son ermitage situé au dehors de Grenade et il m'honora excessivement. Puis j'allais en sa compagnie visiter la zaouia célèbre, vénérée du public et appelée Rabitah al 'okab, du nom d'une montagne qui domine l'extérieur de Grenade »[4].
D'origines diverses, mais majoritairement issus des anciennes colonies et établis dans les anciennes « métropoles », ce qui n'est pas sans lien avec la façon dont ils sont perçus par les populations autochtones et les Etats, ils forment désormais d'importantes minorités religieuses : les évaluations varient d'une source à l'autre, mais on cite le chiffre de 14 millions ; ils forment près de 4% de la population de l'Union Européenne.
En Allemagne, en France, en Belgique et aux Pays-Bas, ils représentent de 3 à 10% de la population, l'Islam étant désormais la 2e religion de France.
Ils participent sous des formes diverses à une redéfinition du rapport au religieux perceptible en Europe et même au delà.
Un déclin ou une redéfinition de la religiosité ?
Mais s'agit-il d'une redéfinition ou d'un déclin ?
Certains observateurs considèrent en effet que l'Europe est la terre d'élection de la sécularisation, perçue comme un phénomène de désinstitutionnalisation de la religion et de disqualification du credo religieux ; ils opposent en cela l'Europe aux Etats-Unis présentés comme un foyer de religiosité ardente.[5]
Je pense, et j'y reviendrai qu'effectivement la sécularisation représente un phénomène important en Europe.
Cependant, s'il est vrai que la religion tient une place plus importante aux U.S.A[6], il ne faut pas pour autant, me semble-t-il considérer pour autant l'Europe comme un continent où le fait religieux subirait une forme de déclin.
Il faut en fait affiner l'analyse :
- On assiste en Europe à une perte d'emprise des églises « officielles »[7] qui ne correspond pas forcement à un déclin de la Foi. On observe même depuis une dizaine d'années un renforcement des croyances religieuses chez les jeunes : 60% déclareraient aujourd'hui croire en Dieu, contre 53% il y a treize ans[8].
- On assiste également à l'affirmation du phénomène de « l'individualisation du croire », c'est-à-dire à l'émergence de syncrétismes ou de bricolages religieux basés sur des emprunts aux grandes traditions religieuses dans lesquelles les individus, tels des consommateurs puisent, adaptent afin de trouver leur bonheur.
- Et quelquefois, cette quête spirituelle individuelle amène certains à « changer de fournisseur », c'est-à-dire à se convertir à une religion qui n'est pas celle dans laquelle ils ont été élevés ou celle de leur culture d'origine[9].
Face à ces phénomènes, comment réagit le droit ?
En est-il le révélateur ou se situe -t-il en deçà de ces évolutions ?
Afin de se faire une opinion, je vous propose d'entreprendre une analyse rapide des droits des cultes dans les principaux pays européens ; il conviendra également de s'interroger sur l'existence d'un droit des cultes européen, qui s'imposerait à chaque Etat de l'Union Européenne.
Première Partie : la pluralité des droits des cultes en Europe et la place qu'ils réservent à l'Islam.
Nous verrons plus avant que la majorité des pays de l'UE progressent vers une forme de « laïcité culturelle », d'autres emploient le terme de sécularisation, les Etats reconnaissant aux différents cultes le droit d'offrir des réponses spirituelles, éthiques aux citoyens, dans la mesure où ces cultes reconnaissent le cadre légal sécularisé[10].
Certains auteurs[11] ont établi une typologie dualiste en distinguant entre un modèle de sécularisation en œuvre dans les pays protestants, où il existe une coopération entre l'Etat et la ou les institutions religieuses dans l'organisation de la vie sociale et un modèle de laïcisation, plus « catholique » qui met en concurrence l'Etat et la ou les religions.
Je vous propose pour ma part une classification autre, basée sur l'existence de trois grands ensembles, car j'ai constaté que la frontière entre Europe « catholique » et « Protestante » était assez poreuse sur ce plan : par exemple, la Belgique est un pays « catholique » où l'Etat coopère avec les religions.
On peut donc distinguer :
1- Les pays de religion d'Etat mettant en œuvre des « systèmes de confessionnalité ».
2- Les pays neutres religieusement comprenant des religions reconnues : les « systèmes de séparation souple ».
3- La laïcité française : une séparation stricte.
1 - Dans le premier groupe, on trouve des pays où une religion est reconnue comme dominante par l'Etat.
Par exemple en Angleterre, l'Eglise anglicane jouit du statut d'Eglise « établie »[12] ; le souverain en est le chef[13] et la cérémonie du couronnement est une cérémonie religieuse ; il nomme les principaux dignitaires ecclésiastiques ; les deux archevêques et les 24 évêques de l'Eglise anglicane siègent à la chambre des Lords et toutes les séances du Parlement commencent par une prière.
Le successeur au Trône doit être obligatoirement protestant[14] et ne doit pas épouser une personne de confession catholique.
Malgré ce statut, le soutien financier de l'Etat est très limité : aucun paiement de salaire, de frais de gestion ou de retraite n'est assuré par l'Etat et les exemptions d'impôts sont celles dont bénéficient toutes les organisations caritatives.
Le seul soutien financier indirect concerne l'entretien des bâtiments historiques, ce qui est important puisque 13.000 des 16.000 églises paroissiales sont répertoriées comme telles.
Au Danemark, le protestantisme luthérien a le statut d'Eglise « Nationale » depuis 1536 et bénéficie du soutien de l'Etat[15] qui est toujours en charge de la législation, de l'administration et des décisions judiciaires de l'Eglise au niveau national.
Le Roi se doit d'appartenir à cette église[16] et il en est son chef. En pratique, son pouvoir est assuré par le Ministre des Affaires Ecclésiastiques ; les ministres du culte disposent du statut de fonctionnaires, ils sont rémunérés en partie par l'Etat[17].
L'Eglise protestante luthérienne bénéficie d'un impôt cultuel dû par tous les citoyens baptisés dans cette religion qui n'ont pas rempli une demande pour en être exemptés[18] ; collecté par les communes, il varie entre 0,39% et 1,5% du revenu imposable.
Par ailleurs, l'Etat danois confie des compétences d'intérêt public à l'Eglise luthérienne : le service des pompes funèbres et l'enregistrement des naissances à l'état civil[19].
En Grèce, l'article 3 de la constitution reconnaît à l'Eglise orthodoxe autocéphale un statut de « religion dominante» ; elle bénéficie de privilèges fiscaux ; les membres du clergé sont fonctionnaires rémunérés par le Ministère de l'Education Nationale et des Affaires Religieuses . La nomination des métropolites et des archevêques continue de devoir être validée par l'Etat ; les prières sont obligatoires dans certaines institutions comme l'armée et l'école. Dans cette dernière, les cours d'éducation religieuse sont obligatoires.
Les bénédictions religieuses émaillent les célébrations civiles nationales, comme par exemple les nouvelles sessions parlementaires, ces derniers devant se plier à une prestation de serment religieuse.[20]
Malgré la faveur accordée à une religion, ces Etats reconnaissent les autres cultes.
En Angleterre, le régime de tolérance religieuse date de la fin du 16e siècle avec le Toleration act de 1688 accordant la liberté de culte aux catholiques.
Toutes les communautés religieuses non anglicanes sont indépendantes de l'Etat et organisées dans le cadre associatif. Elles peuvent obtenir le statut d'institutions charitables qui leur permet de jouir d'un statut fiscal avantageux avec exemption de tout impôt sur le revenu.
Dans ce cadre juridique très souple, des centaines d'organisations musulmanes développent leurs activités ; elles collaborent avec l'Etat dans de nombreux domaines, notamment au niveau éducatif (par exemple, acceptation du voile et des repas halal, cours d'éducation religieuse islamique dans les quartiers où il existe de fortes communautés musulmanes...). Des financements publics sont accordés à des associations religieuses qui développent des actions à caractère social (alphabétisation...).
Au Danemark, conformément au principe constitutionnel de l'interdiction de toute discrimination religieuse[21] et à celui de la liberté religieuse[22] les communautés autres que l'Eglise luthérienne sont constituées en associations de droit privé ; une vingtaine d'entre elles ont été reconnues par le Ministère des Affaires Ecclésiastiques, ce qui leur permet de célébrer des mariages civilement valables, d'enregistrer les naissances et les décès et de délivrer tous les actes de l'état civil. Cette reconnaissance officielle leur permet de recevoir des fonds publics pour les activités à caractère social ; elle ne leur permet pas de bénéficier de financements publics pour l'exercice d'un culte.
La religion musulmane n'est pour l'instant pas reconnue[23]. Les imam doivent obtenir une autorisation du Ministère des Affaires Ecclésiastiques pour pouvoir séjourner sur le territoire danois ; ils peuvent être autorisés à inhumer des musulmans et peuvent obtenir l'autorisation de célébrer des mariages dont la validité est cependant soumise à l'enregistrement des autorités danoises.
En Grèce, la liberté de culte est un principe constitutionnel reconnu pour les religions connues sans dogmes secrets et sans culte clandestin : le judaïsme, l'islam, le catholicisme, le protestantisme, le méthodisme et les témoins de Jéhovah. Ces cultes ne doivent cependant pas se trouver en contradiction avec la situation privilégiée de l'Eglise orthodoxe grecque qui conserve un droit de veto sur toute construction de lieu de culte.
Il faut noter que la Grèce présente la particularité d'accueillir une minorité religieuse musulmane de 370.000 personnes en Thrace occidentale au Nord-Est du pays. Ces citoyens disposent de garanties prévues par le traité de Lausanne signé le 24 juillet 1923 : libre exercice de la religion, écoles musulmanes financées par l'Etat grec, un statut personnel particulier géré par trois mufti qui devaient être élus par la population mais qui sont nommés par l'Etat grec[24].
2 - Le modèle le plus répandu est celui de pays ou l'Etat est neutre mais reconnaît différentes religions : les systèmes de séparation souple.
Dans ces pays, L'Etat ne connaît aucune religion officielle.
C'est le cas par exemple en Belgique[25], aux Pays-Bas[26], en Allemagne[27], en Italie[28] et en Espagne[29], mais également en Autriche[30], en Suède[31], et en Irlande[32].
C'est ce système qui prévaut également dans la plupart des anciennes démocraties populaires d'Europe centrale : Pologne[33], Hongrie[34], Roumanie[35], Slovaquie, Tchéquie, Slovénie, Lettonie, Lituanie, Estonie.
Différentes religions sont cependant reconnues, et l'on va noter sur ce point des différences entre pays.
Certains pays n'accordent à aucune religion de statut juridique particulier.
Certains pays réservent des statuts juridiques particuliers aux religions les plus anciennement implantées et qui comptent le plus d'adeptes.
Je prendrai pour illustrer mon propos deux exemples emblématiques :
En Belgique, pays majoritairement catholique, l'Etat reconnaît par acte royal certaines confessions qui bénéficient par ce biais d'un même statut juridique, même si le culte catholique a servi de modèle et de point de référence pour l'élaboration du statut juridique des autres cultes reconnus.
L'absence de texte énonçant les critères de cette reconnaissance est palliée par la constance des réponses apportées aux questions posées par les parlementaires ; ainsi « Pour qu'un culte puisse jouir de la reconnaissance légale, il doit regrouper un nombre relativement élevé d'adeptes (plusieurs dizaines de milliers), être structuré, être établi dans le pays depuis une assez longue période, présenter un certain intérêt social et enfin ne développer aucune activité qui pourrait aller à l'encontre de l'ordre social».[36]
Les cultes reconnus[37] par l'Etat belge sont les Eglises catholique, protestante, anglicane, orthodoxe, les cultes israélite et musulman[38]. Nous verrons plus avant que dans la pratique la reconnaissance ne garantit pas un traitement égalitaire.
En Italie, les religions ont des statuts juridiques différenciés.
Les relations entre l'Etat et l'Eglise catholique sont régis par un concordat signé entre l'Etat italien et l'Etat du Vatican, ainsi que par une loi du 20 mai 1985 sur les entités ecclésiastiques catholiques, leur statut juridique et leur financement.
Le concordat issu du Pacte de Latran signé en 1929 par Mussolini, modifié le 18 février 1984[39] constitue un traité international ratifié par le Parlement. Tout litige à son sujet doit être réglé par les juges internationaux et échappe ainsi au juge italien. Il va sans dire que ce statut est avantageux : plutôt que d'aller devant la Cour Internationale de Justice de La Haye, les deux Etats s'efforceront de trouver un accord amiable car aucun n'aura intérêt à se lancer dans un contentieux diplomatique.
Tout en affirmant la séparation des domaines religieux et civil, ils continuent d'accorder de nombreux privilèges, notamment financiers à l'Eglise catholique.
Les confessions autres que catholique bénéficient soient d'ententes avec l'Etat qui sont des accords ratifiés par le Parlement relevant du droit interne[40], soit relèvent des dispositions de la loi du 24 juin 1929 sur le statut juridique des confessions autres que catholique. On trouve enfin des religions qui relèvent du droit commun des associations ; l'Islam fait partie de cette catégorie, les projets d'entente avec l'Etat demandés par différentes organisations musulmanes ayant échoué notamment au motif que les musulmans ne sont pas eux-mêmes organisés[41].
On parle de séparation souple car ce système de reconnaissance implique l'attribution d'aides publiques en faveur des cultes.
En Belgique, l'Etat prend en charge les traitements et pensions des Ministres des Cultes[42], l'enseignement religieux est dispensé et financé par les Communautés Linguistiques dans toutes les écoles confessionnelles ou non[43].
Les confessions reconnues par l'Etat bénéficient d'avantages : Présence et paiement des aumôniers dans les prisons, les hôpitaux, les forces armées et les aéroports, la prise en charge des déficits liés à l'exercice des cultes, prise en charge par les Communes ou les provinces du logement ou paiement d'une indemnité compensatoire en faveur des ministres du culte. Les Communautés religieuses bénéficient de crédits publics[44] pour la rénovation et l'entretien de leurs bâtiments.
Enfin, ces dernières bénéficient d'un régime fiscal avantageux.
Malgré l'égalité cultuelle proclamée par l'Etat, l'Eglise catholique est celle qui obtient encore le plus d'aides (80% des aides publiques consacrées aux cultes en 2000), la Communauté musulmane apparaissant comme le parent pauvre des religions reconnues : en 2004, elle était encore privée de l'enveloppe budgétaire qui lui revenait de droit, ne disposant que de 420.000 euros, le culte catholique bénéficiant de 350 millions d'euros ; jusqu'à cette même année, aucune mosquée n'avait été subventionnée en dehors de la grande mosquée du centenaire à Bruxelles. Il était également fait état de difficultés concernant la rémunération des imam[45].
En Italie, les religions bénéficiant d'une entente avec l'Etat et l'Eglise catholique peuvent recevoir une partie de l'impôt sur le revenu[46], bénéficier de dons déductibles du revenu imposable du donataire, d'un régime fiscal avantageux.
L'Eglise catholique bénéficie de la rémunération étatique de ses aumôniers dans les prisons et les hôpitaux (les autres confessions les rémunérant sans aucune aide publique) et de la prise en charge des cours de religion catholique dans les établissements primaires et secondaires.
3 - Nous terminerons cette 1ere partie par l'évocation de la laïcité française, symbole d'une séparation stricte entre l'Etat et les religions[47].
La laïcité de la République française constitue un principe à valeur constitutionnelle[48] qui ne peut être juridiquement remis en cause. En effet, le fait que l'article 1er de la constitution rattache la laïcité à la forme républicaine de la France a une conséquence juridique importante puisque l'article 29 de la constitution prohibe la révision de la forme républicaine du gouvernement.
Fait remarquable, aucun texte ayant une portée juridique ne donne une définition précise de la laïcité. Je m'essayerai donc très imprudemment à l'exercice en vous proposant celle-ci : La laïcité implique que l'Etat et l'ensemble des institutions publiques n'interviennent pas dans le domaine religieux et que les religions n'interviennent pas dans la sphère publique.
Cette séparation a été principalement affirmée par la Loi du 9 décembre 1905 qui affirme que la République ne reconnaît, ne salarie ni ne subventionne aucun culte.
Mais la laïcité doit cohabiter avec un autre principe constitutionnel : celui de la liberté de conscience, la République respectant aux termes de l'article 1er de la constitution toutes les croyances[49].
C'est pourquoi l'article 18 de la loi du 9 décembre 1905 prévoit la création d'associations qui pourront subvenir aux frais, à l'entretien et à l'exercice public d'un culte, mais qui ne pourront toutefois bénéficier d'aucune subvention publique.
Ce principe a subi plusieurs tempéraments :
- Ces associations sont en effet exonérées de certains impôts directs locaux,[50] elles peuvent recevoir des dons et des legs, exonérés de droits de mutation.[51]
- L'article 5 de la loi du 13 avril 1908 a autorisé l'Etat, les Départements et les Communes à engager les dépenses nécessaires en vue de l'entretien et de la conservation des édifices du culte dont la propriété leur est reconnue par la Loi, c'est à dire ceux édifiés avant 1905, donc essentiellement des églises et quelques temples et synagogues et également des bâtiments appartenant aux associations cultuelles[52].
- L'article 11 alinéa 1er de la loi de finances du 29 juillet 1961[53] permet aux communes de garantir les emprunts contractés par les associations cultuelles afin de financer dans des agglomérations nouvelles des édifices correspondant à des besoins collectifs à caractère religieux.
- Il faut également citer la technique juridique du Bail Emphytéotique Administratif utilisé par des personnes publiques afin de mettre à bail des terrains au profit d'associations cultuelles pour une durée comprise entre 18 et 99 ans, ce qui peut être assimilé à une subvention publique.
- Les dispositions de la loi du 9 décembre 1905 ont également été contournées par la loi du 2 janvier 1907 qui a ouvert la possibilité aux associations régies par la loi du 1er juillet 1901 d'assurer l'exercice d'un culte, ces associations pouvant être librement subventionnées par les pouvoirs publics.
La laïcité a donc été largement aménagée pour tenir compte de la liberté de conscience et du libre exercice des cultes.
Devant les nombreux tempéraments portés au principe du non subventionnent public des cultes, certaines voix se sont fait entendre dans le monde politique, judiciaire et universitaire pour réviser la loi du 9 décembre 1905 [54].
Ce qui n'a pas empêché le monde politique de réaffirmer haut et fort son attachement à la laïcité à l'occasion de l'adoption le 15 mars 2004 d'une loi encadrant le port de signes ou de tenus manifestant une appartenance religieuse dans les écoles, collèges et lycées publics[55].
Quoi que l'on puisse penser de ce texte qui en fait, visait l'interdiction du voile islamique, force est de constater que la justice européenne a récemment donné raison à la France à l'occasion de deux arrêts rendus au mois de décembre 2008 que j'évoquerai plus avant.
Deuxième Partie : vers un droit des cultes européen ?
Ceci me permet d'aborder la deuxième partie de cette intervention dans laquelle je vais m'interroger sur la présence ou pas d'un droit des cultes européen.
1- L'affirmation de certains principes
Différents actes communautaires abordent le fait religieux[56] en se bornant à affirmer certains principes :
Par exemple, les traités fondateurs de l'U.E ont consacré deux principes : celui de non-discrimination religieuse et celui du respect des droits fondamentaux de la personne[57].
Ces principes sont repris par la Charte des Droits Fondamentaux de l'Union Européenne du 7 décembre 2000 et par le récent traité de Lisbonne du 13 décembre 2007[58] modifiant le traité sur l'Union Européenne et le traité instituant la Communauté Européenne.
La Convention de Sauvegarde des Droits de l'Homme et des Libertés Fondamentales du 4 novembre 1950 qui intervient dans le cadre plus large du Conseil de l'Europe reprend également les deux principes précités en précisant que « 1. Toute personne a droit a la liberté de pensée, de conscience et de religion ; ce droit implique la liberté de changer de religion ou de conviction, ainsi que la liberté de manifester sa religion ou sa conviction individuellement ou collectivement, en public ou en privé, par le culte, l'enseignement, les pratiques et l'accomplissement des rites. 2. La liberté de manifester sa religion ou ses convictions ne peut faire l'objet d'autres restrictions que celles qui, prévues par la loi, constituent des mesures nécessaires dans une société démocratique, à la sécurité publique ou à la protection de l'ordre de la santé ou de la morale publique ou à la protection des droits et des libertés d'autrui »[59].
2. Le contrôle de l'application de ces principes
La CEDH contrôle le respect de ce texte. Il faut en effet rappeler qu'en vertu de l'article 34 de la convention, la CEDH peut être saisie d'une requête individuelle par toute personne physique, toute Organisation Non Gouvernementale qui estime être victime d'une violation des droits reconnus par la convention.
Au niveau de la forme, les restrictions doivent être claires, précises et doivent pouvoir être connues[60]. Ceci impose l'intervention d'une loi, non pas au sens formel, c'est à dire une loi votée au Parlement, mais au sens matériel, c'est à dire un acte de portée générale ayant fait l'objet d'une publication. Ceci exclut des restrictions fondées sur des normes inférieures dans la hiérarchie des normes (circulaires par ex) ou sur des décisions jurisprudentielles.
Cette exigence a certainement pesé sur le choix de l'intervention du législateur français en 2004 concernant le port de signes ou de tenues manifestant une appartenance religieuse dans les écoles, collèges et lycées publics.
Sur le fond, la Cour érige la liberté religieuse en principe, l'interdiction ne pouvant constituer que l'exception.
Ainsi, la liberté de conscience et de religion peut-elle être affirmée en parole et en actes[61] ; la prohibition d'un culte est interdite[62] ; le rôle de l'Etat dans l'organisation d'une neutralité impartiale est reconnu, ce dernier devant permettre l'exercice des religions, des cultes et croyances et ne pas apprécier la légitimité des croyances.[63]
Au fil des années, la CEDH a précisé le champ d'application de l'interdiction de la liberté religieuse. Elle a ainsi estimé en 1993 que le principe de laïcité constitutionnellement reconnu en Turquie justifiait l'exclusion de l'université de deux étudiantes qui refusaient d'ôter leur voile islamique pour se faire photographier.[64] Toujours en Turquie, la Cour a également approuvé l'interdiction d'une formation politique islamiste, le Refah au motif qu'il souhaitait instaurer un régime fondé sur la chari'a, l'interdiction étant dès lors nécessaire « à la protection d'une société démocratique »[65]. Le 27 avril 1999, la CEDH a considéré au nom du droit à l'instruction des enfants que le refus d'accorder une dispense de l'obligation scolaire le samedi à un enfant dont les parents sont membres de l'Eglise adventiste du 7e jour était justifié. Le 29 juin 2004, la CEDH a estimé que la réglementation de l'Université d'Istanbul qui interdit le port du voile islamique apparaissait proportionnée aux buts poursuivis, la protection de la laïcité dans un établissement universitaire dans un pays où il existe des mouvements politiques extrémistes utilisant les symboles religieux à des fins politiques relevant d'un « besoin social impérieux ».
Concernant les turbans sikh, la CEDH a débouté une personne qui avait attaqué les autorités d'un aéroport au motif qu'il avait été obligé d'ôter son turban lors du passage sous le sas de sécurité car cette mesure était nécessaire à la sécurité publique[66] ; elle a également récemment admis également pour des raisons de sécurité publique qu'une personne puisse se voir refuser un renouvellement de permis de conduire au motif qu'il apparaissait coiffé d'un turban sur les photos d'identité demandées[67].
Pour prendre un cas qui s'est déroulé ici au Maroc, la CEDH a estimé que le refus de laisser entrer une femme voilée dans le Consulat de France à Marrakech pour l'obtention d'un visa parce qu'elle s'était opposée à son identification par un agent enlevant son voile, ne constituait pas une atteinte à la liberté religieuse car cette mesure était dictée par des consignes de sécurité[68].
La CEDH est également intervenue dans deux arrêts rendus le 4 décembre 2008[69] pour débouter deux collégiennes françaises qui avaient refusé de participer aux cours d'éducation physique car il leur fallait pour cela enlever leur voile et partant, avaient été exclues du collège. La Cour a souligné à cette occasion la spécificité du modèle français de laïcité et a affirmé l'existence, je cite : « d'une marge d'appréciation qui doit être laissée aux Etats membres dans l'établissement des délicats rapports entre les Etats et les Eglises ».
Et effectivement, nous voyons que si la liberté de manifester ses convictions religieuses est reconnue, elle s'accompagne d'une protection toute relative fondée sur une marge d'appréciation laissée aux Etats tout à fait appréciable.
3. L'inexistence d'un système de gestion du fait religieux en Europe
Car au-delà de l'affirmation et de l'interprétation jurisprudentielle de ces principes aucune compétence n'est attribuée à l'Union Européenne en matière de gestion des cultes : il n'existe pas un système de gestion du fait religieux qui s'impose à tous les pays de l'U.E.
Le seul texte qui fait mention du statut des cultes est issu d'une courte déclaration adoptée à Turin le 22 mars 1996 par les représentants des Etats Membres de l'U.E qui est annexée au traité d'Amsterdam sous le titre : « Déclaration relative au statut des églises et organisations non confessionnelles » et qui précise que l'U.E « respecte et ne préjuge pas le statut dont bénéficient en vertu du droit national les églises et les associations ou communautés religieuses des Etats membres »[70].
Cette absence de droit européen des cultes permet aux Etats de continuer à appliquer des dispositions juridiques guidées, nous l'avons vu, par des rapports au fait religieux très divers.
Et ceci a pour conséquence des différences dans la manière dont ils traitent juridiquement certains dossiers comme par exemple le port du voile islamique[71], ou la reconnaissance de certains cultes[72].
Conclusion : vers une civilisation commune ?
En conclusion, je crois que l'Europe et à des degrés et sous des formes diverses les pays européens sont tiraillés entre deux tentations parfaitement illustrées lors des débats qui ont fait rage sur la référence à la religion dans le projet de constitution européenne.
D'une part la tentation du repli culturel sur d'éventuelles racines chrétiennes ou judéo-chrétiennes, cette association du judaïsme et du christianisme qui aurait profondément choqué au milieu du siècle dernier étant désormais à la mode, ou, je l'évoquais précédemment sur une affirmation laïque d'autant plus intransigeante qu'elle s'adresse à des pratiques religieuses considérées comme exogènes.
D'autre part, la tentation de l'ouverture vers l'autre, dans la tradition des Lumières : pour s'en convaincre, relisons Montesquieu ; en 1721 dans ses « Lettres Persanes », il plaidait pour la tolérance et la pluralité religieuse car pour lui, les fidèles d'une religion minoritaire sont d'autant plus appliqués à travailler et contribuent ainsi au bien-être général.
Dans ses « Lettres Philosophiques » en 1734, Voltaire abondait dans le même sens en déclarant : « S'il n'y avait en Angleterre qu'une religion, le despotisme serait à craindre ; s'il y en avait deux, elles se couperaient la gorge ; mais il y en a trente, et elles vivent en paix et heureuses ».
Aujourd'hui alors qu'une nouvelle diversité religieuse habite le vieux continent et que plus particulièrement l'Islam constitue une réalité européenne, oeuvrons à l'émergence d'une civilisation commune, par delà la légitime diversité des cultures héritées.
Un droit européen des cultes, basé sur cette ambition et qui s'imposerait à chaque pays membre en permettant une parité de traitement des différents cultes pourrait constituer un outil pour ce faire.
[1] Europe du Sud : 329.000 dont notamment Grèce 73.000, Yougoslavie 70.000, Italie 48.000 et Bulgarie 50.000 ; Europe de l'Ouest et du Nord : 766.600 dont notamment Royaume-Uni 300.000, France 300.000 et Pays-Bas 160.000 ; Europe Centrale : 1.644.200 dont Allemagne 525.000, Hongrie 445.000, Tchécoslovaquie 357.000 et Autriche 250.000; Europe Orientale : 6.760.000 dont Pologne 3.000.000, Partie Européenne de l'U.R.S.S 2.500.000, Roumanie 980.000, Etats baltes 250.000.
En 1950, l'Europe n'accueillait plus que 3,5 millions de juifs.
Chiffres donnés par le Mémorial de l'Holocauste des Etats-Unis : http://www.ushmm.org
[2] Chiffres tirés de l'enquête « European Value Survey » cités dans Yves Lambert « Religion, l'Europe à un tournant » Futuribles, juillet-août 2002.
[3] Albanie : 2.170.000 musulmans sur 3.100.000 habitants en 2003 (70%), Bosnie-Herzégovine : 2.342.340 musulmans sur 3.900.000 habitants en 2003 (60%) et également 14 % de musulmans « de souche » en Bulgarie, 30% en Macédoine, 3 à 3,5 % en Grèce. Sources : http://www.islamicpopulation.com et Brigitte Maréchal « L'Islam et les musulmans dans l'Europe élargie : radioscopie » Academia Bruyland. Au Kosovo, la population est à 90 % musulmane, d'origine albanaise, une minorité serbe de confession orthodoxe vivant au Nord et au Sud du pays, anciennement province serbe.
[4] Muhammad Ibn 'abd allah Ibn Battuta « Voyages, Tome III : Inde, Extrême-Orient, Espagne et Soudan » La découverte, Poche, 1997, p. 390.
[5] Jocelyne Cesari « Islam américain, Islam européen », Le Monde Diplomatique, avril 2001.
[6] Si en 1960, le Président John Kennedy, de confession catholique, pouvait encore déclarer : « Je crois en un Président dont les options religieuses relèvent de ses affaires privées », les hommes politiques américains contemporains, Démocrates et Républicains confondus se définissent aujourd'hui ouvertement chrétiens et se réfèrent volontiers à la Bible (Régis Debray : « Le feu sacré ; fonctions du religieux », Fayard, 2003, p. 336).
Le Président Georges W.Bush, qui affirmait avoir comme philosophe référé ... Jésus Christ et qui n'oubliait jamais de commence les réunions en présence de ses proches conseillers par une prière, a défini dans son discours sur l'état de l'Union le 29 janvier 2002, la Corée du Nord, l'Iran et l'Irak comme constituant un « axe du Mal », ce qui constitue une claire référence religieuse (Paul-Marie de la Gorce « Ce dangereux concept de guerre préventive » Le Monde Diplomatique, septembre 2002, p. 10 et 11).
G.W. Bush s'est d'ailleurs appuyé tout au long de son mandat sur les protestants fondamentalistes qui sont persuadés que les Etats-Unis seront appelés à jouer un rôle central dans la lutte biblique du Bien contre le Mal (Nicolas Birnbaum « Aux racines du nationalisme américain » Le Monde Diplomatique, Octobre 2002, p.3.).
Son successeur Barack Hussein Obama a largement instrumentalisé la variable religieuse durant toute la campagne électorale qui a précédé son élection. Déclarant que sa foi chrétienne influait largement sur chacune de ses actions, le nouveau Président, né de père musulman, ayant pourtant reçu une éducation agnostique avant sa conversion au protestantisme a souvent évoqué sa « vie de prière » et n'hésite pas à émailler ses discours de références bibliques (François-Xavier Maigre « Barack Obama n'a jamais caché ses convictions religieuses », La Croix, 6 novembre 2008).
Plus concrètement, B.H. Obama a annoncé son intention de renforcer le « Faith Based Initiative », instauré par son prédécesseur, qui permet à des associations religieuses caritatives de gérer des fonds publics destinés à l'action sociale contre la pauvreté. Il a cependant souhaité un contrôle de la gestion de ces fonds afin qu'ils ne soient pas utilisés à des fins prosélytes.
[7] En France, 80% des mariages s'effectuaient à l'église en 1963 contre moins de 55% aujourd'hui ; dans les années cinquante, un tiers de catholiques se rendaient à la messe dominicale alors qu'ils sont moins de 10% aujourd'hui ; en 1965, 35.000 prêtres étaient en activité alors qu'il n'en restait plus que 9000 en 1995 : statistiques extraites de l'article de Claude Ruano Barbalan « La religion recomposée » Sciences Humaines, n°41, juin-juillet-août 2003.
[8] Yves Lambert « Religion : l'Europe à un tournant », Futuribles, n°277, juillet-août 2002.
[9] Par exemple, de nombreux européens se convertiraient aujourd'hui à l'Islam : En France, le nombre de 40.000 à 50.000 convertis est souvent avancé (Xavier Ternisien « La France des mosquées » Editions 10/18, p. 207 et s.), l'Espagne en compterait 20.000, le terme « Retour » prenant dans ce pays toute sa signification (Jacques Maigne « Grenade, le nouveau monde d'Al Murabitun » Histoire et Patrimoine, n°9, 2004). Le phénomène existe également en sens inverse, par exemple en France 100 à 150 musulmans se convertiraient chaque année au christianisme (Stéphanie Le Bars « De la mosquée à l'Eglise, une route solitaire » Le Monde, 2 mars 2008) ; ces chiffres sont toutefois à manier avec beaucoup de prudence. Les églises évangéliques semblent également recruter beaucoup d'adeptes issus du catholicisme « traditionnel ».
[10] Stéphane Lathion « Islam et musulmans en Europe », Focus, La Médina, 2003, p.30.
[11] Henri Péna Ruiz et Françoise Champion par exemple.
[12] En Ecosse, l'Eglise établie est l'Eglise presbytérienne ; depuis respectivement 1870 et 1920, l'Irlande du Nord et le Pays de Galles n'ont plus d'Eglise établie
[13] La suprématie royale sur l'Eglise anglicane a été établie par l'Act of supremacy en 1543.
[14] « Act of Settlement » de 1701.
[15] Article 4 de la constitution danoise.
[16] Article 6 de la constitution danoise.
[17] Les évêques sont rémunérés par l'Etat ; les pasteurs et les doyens le sont pour la partie qui n'est pas couverte par le « fonds commun » des paroisses.
[18] Dans les faits, 90% des danois paient cet impôt.
[19] Le 5 novembre 2007, la Cour suprême danoise a jugé que les lois actuelles concernant le subventionnement direct de l'Etat à l'Eglise nationale luthérienne et l'enregistrement des naissances dans les paroisses (sauf dans la région du Jutland du Sud) n'était pas contraire à la Convention Européenne des Droits de l'Homme. La Cour avait été saisie par un catholique qui estimait discriminatoire de financer par son impôt cette Eglise dont il n'était pas membre et de devoir enregistrer la naissance de sa fille dans les bureaux de cette Eglise. La Cour a estimé que l'enregistrement des naissances par le biais de l'Eglise nationale luthérienne n'était pas discriminatoire envers les personnes d'autres religions car il s'agissait d'une fonction non religieuse de l'Eglise non rémunérée par l'Etat. De même, le paiement d'impôts dont une partie sert à subventionner cette Eglise ne limité pas la liberté religieuse des non membres car cela constitue un impôt indirect, contrairement à l'impôt cultuel.
[20] Il faut noter que la Bulgarie se rapproche de ce modèle de la religion d'Etat puisqu'elle a adopté le 19 décembre 2002 une loi sur les religions qui confirme le rôle dominant de l'Eglise orthodoxe, cette dernière étant considérée comme une personne juridique et, à ce titre ne devait pas être enregistrée par l'administration civile pour être reconnue officiellement à la différente des autres confessions. La loi définit l'Eglise Orthodoxe comme « l'Eglise traditionnelle » du pays et décrit l'orthodoxie comme la « seule véritable Eglise apostolique depuis le temps du Christ ». L'adoption de cette loi a suscité un avis négatif en date du 27 juin 2003 émanant de la Commission Européenne contre le Racisme et l'Intolérance (E.C.R.I), structure mise en place par le Conseil de l'Europe. La Finlande a deux religions d'Etat, l'Eglise évangélique luthérienne et l'Eglise orthodoxe. A Malte, la religion catholique est définie par la constitution comme « la religion de Malte ». Jusqu'en 1994, le conseil paroissial constituait la seule forme de gouvernement local.
[21] Article 70 de la constitution.
[22] Article 67 de la constitution.
[23] Cultes officiellement reconnus : Eglises catholique, apostolique, pentecôtiste, russe orthodoxe, méthodiste, la religion juive.
[24] Joëlle Dalègre « Citoyens hellènes de religion musulmane » in Michel Bozdemir (dir) « Islam et laïcité : approches globales et régionales » L'Harmattan, 1996, pp. 169 à 188.
[25] Article 21 de la constitution : « L'Etat n'a le droit d'intervenir, ni dans la nomination, ni dans l'installation des ministres d'un culte quelconque, ni de défendre à ceux-ci de correspondre avec leurs supérieurs et de publier leurs actes, sauf en ce dernier cas, la responsabilité ordinaire en matière de presse et de publication ».
[26] Article 1er de la constitution du 17 février 1983 : « Tous ceux qui se trouvent aux Pays-Bas sont, dans la mesure où ils se trouvent dans la même situation traités de façon égale. Nulle discrimination n'est permise, qu'elle se fonde sur la religion, les convictions, les opinions politiques, la race, le sexe ou tout autre motif ».
[27] L'article 140 de la loi fondamentale du 23 mai 1949 précise que les articles 136 à 139 et 141 de la constitution de Weimar du 23 mai 1949 demeurent en vigueur ; l'article 137 al. 1er de la constitution de Weimar dispose : « Il n'existe pas d'Eglise d'Etat » ; al. 3 : « Chaque société religieuse règle et administre ses affaires de façon autonome dans les limites de la loi applicable à tous. Elle confère ses fonctions sans intervention de l'Etat ».
[28] Article 7 alinéa 1er de la constitution : « L'Etat et l'Eglise catholique sont, chacun dans leur domaine indépendants et souverains » ; article 8 alinéa 2 : « Les confessions religieuses autres que la confession catholique ont le droit de s'organiser selon leurs propres statuts, à condition qu'ils ne soient pas en contradiction avec l'ordonnancement juridique italien ». Un arrêt de la Cour constitutionnelle en date du 12 avril 1989 a déduit des normes constitutionnelles l'existence d'un principe supérieur de laïcité.
[29] La constitution du 27 décembre 1978 dispose dans son article 16 alinéa 3 qu' « aucune confession n'aura le caractère de religion d'Etat », cette disposition étant également reprise dans l'article 1er al. 3 de la loi organique 7/1980 du 5 juillet 1980 sur la liberté religieuse.
[30] Il ressort des dispositions de la loi constitutionnelle fédérale du 1er octobre 1920, de la loi du 20 mai 1874 concernant la reconnaissance légale des sociétés religieuses et de la loi fédérale du 9 janvier 1998 relative à la personnalité juridique des communautés confessionnelles que l'ordre juridique autrichien est neutre au niveau religieux, une identification de l'Etat avec une communauté religieuse déterminée est de ce fait exclue.
[31] Depuis l'année 2000, la Suède a aboli son système de relation Etat-Eglise. Auparavant, il existait une Eglise d'Etat, l'Eglise Luthérienne Evangélique qui a désormais le statut de communauté religieuse enregistrée, au même titre que d'autres confessions religieuses, la seule différence est que cet enregistrement est intervenu sur décision du Parlement alors que les autres communautés religieuses doivent demander une autorisation pour ce faire.
[32] Article 42.2.2 de la constitution : « L'Etat s'engage à ne doter aucune religion » ; C'est par référendum en 1972 que la clause constitutionnelle qui reconnaissait une position spéciale à l'Eglise catholique fut supprimée.
[33] Article 25 de la constitution : « Les pouvoirs publics de la République de Pologne font preuve d'impartialité en matière de convictions religieuses, de conception du monde et d'opinions philosophiques, assurent leur libre expression dans la vie publique ».
[34] Article 60 de la constitution du 20 août 1949 : « The church and the states shall operate in separation in the Republic of Hungary ». Décision n°4/1993.II.12 de la Cour constitutionnelle : « L'Etat ne doit pas s'ingérer dans les affaires internes d'aucune Eglise » ; Loi sur la liberté religieuse, n°IV/1990, section 15 : « Les communautés religieuses ne doivent pas faire usage du pouvoir de l'Etat. L'Etat ne joue aucun rôle dans la relation qu'un individu entretien avec son Eglise ».
[35] Selon l'article 29 de la constitution du 21 novembre 1991, les cultes sont autonomes par rapport à l'Etat et jouissent de son soutien. De la même manière, l'article 9 al.1er de la loi n°489/2006 sur la liberté religieuse et le régime général des cultes est ainsi libellé : « En Roumanie, il n'y a pas de religion d'Etat ; l'Etat est neutre à l'égard de toute croyance religieuse ou idéologie athée » ; al. 2 : « Les cultes sont égaux devant la loi et les pouvoirs publics. L'Etat et ses services ne promouvront et ne favoriseront pas l'octroi de privilèges ou la création de discriminations à l'égard d'un culte ».
[36] Les documents de travail du Sénat, série législation comparée : « le financement des communautés religieuses », n° LC-93, septembre 2001, p. 21.
[37] Particularité belge, le mouvement laïc est également reconnu par l'Etat.
[38] On peut penser que ce régime de reconnaissance institue une discrimination par rapport aux cultes non reconnus, comme par exemple le Bouddhisme, l'hindouisme ou le sikhisme : voir Hassan Boucetta et Brigitte Maréchal « L'islam et les musulmans en Belgique : enjeux locaux et cadres de réflexion globaux », Note de Synthèse, Fondation Roi Baudouin, septembre 2003, p.11.
[39] Loi n°121 du 25 mars 1985.
[40] Ententes signées et approuvées par une loi : Table Vaudoise (21 février 1984 approuvée par Loi 449/1984 ; modif. 25 janvier 1993- Loi 409/1993) ; Assemblée de Dieu en Italie (29 décembre 1986 - Loi 517/1988) ; Union des Eglises chrétiennes adventistes du 7e jour (29 décembre 1986- Loi 516-1988 ; modif. 6 novembre 1996- Loi 637/1996) ; Union des Communautés Juives en Italie (27 février 1987- Loi 101-1989 ; modif. 6 novembre 1996- Loi 638/1996) ; Union Chrétienne Evangélique Baptiste (29 mars 1993- Loi 116/1995) ; Eglise Evangélique Luthérienne en Italie ( 20 avril 1993- Loi 520/1995). Ententes signées et pas encore approuvées par une loi : Modification de l'entente avec la Table Vaudoise (4 avril 2007) ; Modification de l'entente avec l'Union des Eglises Chrétiennes Adventistes du 7e jour (4 avril 2007) ; Eglise Apostolique en Italie (4 avril 2007) ; Eglise de Jésus-Christ des Saints des derniers jours (4 avril 2007) ; Congrégation Chrétienne des Témoins de Jéhovah (4 avril 2007) ; Sacra Arcidiocesi d'Italia ed Esarcato per l'Europa Meridionale (4 avril 2007) ; Union Bouddhiste Italienne (4 avril 2007) ; Union Hindouiste Italienne (4 avril 2007).
[41] Les Etats européens ayant signé un concordat avec le Saint-siège sont : l'Autriche (1934), l'Espagne (1953), la Pologne (1993), la Slovaquie (2004)
[42] Article 181 de la Constitution.
[43] Article 24 al. 3 de la Constitution.
[44] Reposant sur de bases juridiques multiples, aussi bien nationales que régionales, ces crédits peuvent être inscrits aux budgets des communes, des provinces, des régions ou de l'Etat.
[45] Brigitte Maréchal « L'islam et les musulmans dans l'Europe élargie : radioscopie » Academia Bruyland,
[46] Les contribuables italiens peuvent donner 0,8% du montant de leur impôt sur le revenu à l'Eglise catholique ou à un culte bénéficiant d'une entente ; s'ils ne font aucun choix ce pourcentage est attribué aux cultes en proportion des choix opérés par les autres contribuables.
[47] Nous abordons ici le statut commun des cultes ; nous laisserons de côté les exceptions à ce dernier applicables dans les trois départements du Haut-Rhin, du Bas-Rhin et de la Moselle, dans le département d'outre-mer de la Guyane, dans les territoires d'outre-mer de Saint-Pierre et Miquelon, de Polynésie, de Nouvelle-Calédonie et de Wallis et Futuna, ainsi que dans la collectivité territoriale de Mayotte.
[48] Article 1er de la constitution du 4 octobre 1958 ; article 13 du préambule de la constitution du 27 octobre 1946.
[49] Article 1er de la constitution du 4 octobre 1958 : « La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l'égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d'origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances ...».
[50] Taxe foncière (cf. arrêt Conseil d'Etat 23/6/2000 « Ministère de l'Economie et des Finances contre Association locale pour le culte des Témoins de Jéhovah »), taxe d'habitation pour les édifices culturels et taxe professionnelle pour les activités cultuelles.
[51] Article 795-10 du Code général des impôts.
[52] Article 2 de la loi du 25 décembre 1942.
[53] Introduite dans le Code Général des Collectivités Territoriales à l'article L 2252-4. Confirmé le 9 octobre 1992 par un arrêt de section du Conseil d'Etat « Commune de St Louis contre Association Siva Soupramane de St Louis » Recueil CE 358 AJDA 1992.817 Concl. Scanvic.
[54] Certains hommes politiques, de droite comme de gauche, sont favorables à une telles révision : citons, par exemple, Pierre Bédier, Jean-François Copé et Manuel Valls ; ils rejoignent en cela l'opinion exprimée par certains magistrats : voir à ce propos l'article de Jean Volff, Procureur Général près la cour d'Appel de Toulouse « Régime des cultes et laïcité », La Gazette du Palais, 4-5 juillet 2001, p. 2 à 8. A la demande du président de la République le Professeur de droit Jean-Pierre Machelon a rédigé un rapport dans lequel il préconise différentes mesures allant dans ce sens.
[55] Loi n°2004-228 du 15 mars 2004 (JO n°65 du 17 mars 2004).
[56] Nous n'aborderons pas ici par souci de concision toutes les dispositions européennes traitant du religieux ; il faut noter que la Cour de justice des communautés européennes a jugé plusieurs affaires concernant la liberté religieuse ou les activités des collectivités religieuses ; de même plusieurs directives concernent le fait religieux
( par exemple directive 2003/88/CE du 4/11/2003 sur la durée du temps de travail et le repos hebdomadaire avec des dispositions spéciales pour les travailleurs des communautés religieuses ; le règlement CE n°2201/2003 du 27 novembre 2003 sur la reconnaissance et l'exécution des jugements en matière de séparation de corps permet la reconnaissance d'une décision d'un Etat membre dans tous les autres Etats membres sans qu'il soit nécessaire d'intenter une autre procédure en prenant en compte les annulations de mariages catholiques par les juridictions ecclésiastiques dans les pays régis par des accords internationaux avec le Vatican ( Espagne, Italie, Portugal).
[57] Article 13 al. 1er du Traité Instituant la Communauté Européenne (JOEU n°325 du 24 décembre 2002) : « Sans préjudice des autres dispositions du présent traité et dans les limites des compétences que celui-ci confère à la Communauté, le Conseil, statuant à l'unanimité sur proposition de la Commission et après consultation du Parlement Européen, peut prendre les mesures nécessaires en vue de combattre toute discrimination fondée sur le sexe, la race ou l'origine ethnique, la religion ou les convictions, un handicap, l'âge ou l'orientation sexuelle... » ; Article 6 al. 2 du Traité sur l'Union Européenne ( JOEU n°325 du 24 décembre 2002) : « L'Union respecte les droits fondamentaux tels qu'ils sont garantis par la Convention Européenne de Sauvegarde des Droits de l'Homme et des Libertés Fondamentales, signée à Rome le 4 novembre 1950 et tels qu'ils résultent des traditions constitutionnelles communes aux Etats membres, en tant que principes généraux du droit communautaire ».
[58] Article 6 alinéa 1er : « L'union reconnaît les droits, les libertés et les principes énoncés dans la Charte des Droits Fondamentaux de l'U.E du 7 décembre 200, telle qu'adaptée le 12 décembre 2007 à Strasbourg, laquelle a la même valeur juridique que les traités ».
[59] Article 9 alinéas 1et 2.
[60] CEDH 26 avril 1979 « Sunday Times c/R.U ».
[61] CEDH 25 mai 1993 « Kokinakis c/Grèce » ; 20 septembre 1994 « Otto Preminger Institut c/ Autriche » ; 18 février 1999 « Buscarini et autres c/Saint-Marin ».
[62] CEDH 26 septembre 1996 « Manoussakis c/Grèce ».
[63] CEDH 13 décembre 2001 « Eglise métropolitaine de Bessarabie et autres c/Moldova ».
[64] CEDH 3 mai 1993 « Karaduman c/Turquie ».
[65] CEDH 13 février 2003 « Parti de la prospérité c/Turquie ».
[66] CEDH 11 janvier 2005 « Phull c/France ».
[67] CEDH 13 novembre 2008 « Shingara Mann Singh c/France"
[68] CEDH 4 mars 2008 « El Morsli c/France ».
[69] CEDH 4 décembre 2008 « Dogru c/France » et « Kervanci c/France ».
[70] JOCE 10 novembre 1997, C 340/133.
[71] Le port du voile dans les établissements scolaires est interdit pour les enseignants dans certains länder en Allemagne ( Bade Wurtenberg, Basse Saxe, Sarre, Hesse, Bavière, Berlin, Brême, Rhénanie du Nord Westphalie) , il est autorisé en Autriche, en Belgique, au Danemark, en Espagne, en Finlande, en Irlande, en Italie, aux Pays-Bas, au Portugal en Slovaquie et en Suède . Il est interdit France ; au Royaume-Uni, le débat porte plutôt sur le port du niqab. Voir : « Le port des signes religieux en Europe » www.eurel.info , mars 2007.
[72] Par exemple l'Eglise de scientologie est reconnue comme telle dans certains pays (Italie, Autriche, Suède, Hongrie, Slovénie, Croatie, Portugal en 2007 et Espagne en 2008) ; Dans certains autres pays, il ne s'agit pas d'une religion (France(secte), RFA, Belgique). Le 5 avril 2007, la CEDH a jugé que l'Eglise de Scientologie bénéficie des droits et des protections concernant la liberté religieuse garantis par l'art. 9 de la convention « Eglise de Scientologie de Moscou c/Russie ».
Avant toute chose, merci de m'avoir invité à participer à ce remarquable colloque dont j'ai pu admirer la densité d'informations et l'esprit d'ouverture exceptionnel.
Je souhaiterais élargir le débat que soulève l'implantation grandissante d'une population musulmane dans l'ensemble de l'Union européenne, atteignant aujourd'hui environ 3,5% de la globalité de la population européenne des 27 Etats membres.
Le monde européen a connu une longue période durant laquelle la religion catholique et son schisme protestant ont dominé le pouvoir temporel, soit directement, soit par l'intensité de la pression du spirituel sur la gestion du temporel. Ainsi, rappelons que pour échapper à l'hégémonie de Rome, Henri VIII d'Angleterre choisit de créer de toutes pièces une religion dont il se proclama le chef. Et, d'autre part, plusieurs empereurs allemands ont dû s'incliner devant la menace d'être excommuniés. Voltaire dut s'exiler de Genève pour échapper à la censure instaurée par Calvin.
Accablé par de multiples revers militaires face aux Espagnols, aux Croisés, aux colonialistes, l'islam flamboyant de culture et de tolérance - citons Cordoue, Tolède, Fès, les Séfévides de Perse, les Grands Moghols, la Chine de Kubilaï Khan dont la mère était nestorienne - subit de 1492 (la prise de Grenade) à 1954 (l'arrivée de Nasser) une fort longue occultation. Il ne put vivre ni la révolution industrielle ni l'apport de ce que les Européens appellent le "siècle des Lumières", le siècle de l'avènement de la pensée libérée des contraintes du fondamentalisme religieux, chrétien à l'époque.
Naît alors, exclusivement en Europe, la "laïcité", ce terme français que nous pourrions exprimer par la formule "humanisme neutre non contraignant".
Afin de pouvoir organiser la gestion de l'Etat, les nations européennes, confrontées à des guerres de religion répétées, adoptèrent le principe de la laïcité de l'Etat, à des niveaux divers.
L'Angleterre, par exemple, choisit de pratiquer cette neutralité assortie de concessions communautaires, telle l'organisation de juridictions d'arbitrage guidées par les impératifs du sacré.
Le niveau maximal observable est celui de la laïcité à la française, édifiée en 1905: neutralité absolue du séculier, du temporel, à l'égard de toutes les spiritualités, lesquelles ne relèvent plus que du domaine privé individuel. Ce qui signifie que les "valeurs" de toutes religions ne peuvent prétendre pénétrer la gestion de l'Etat. Notons que la Turquie islamique est ainsi laïque depuis 1923 de par la volonté de Mustafa Kemal, un statut actuellement contesté par la mouvance de l'AKP menée par le Premier ministre Erdogan.
Remarquons qu'il existe une autre acception de ce terme "laïcité". Il s'agit de la laïcité à la belge, à l'espagnole, à l'italienne qui se teinte d'un caractère militant, compte tenu d'une longue lutte contre la domination d'un clergé catholique très actif. Cette laïcité-là peut être alors définie comme un humanisme dégagé de l'influence du religieux.
Nous pouvons à présent en arriver à la situation spécifique de l'islam européen.
Ce n'est pas à la plupart des membres de cette assemblée que je dois apprendre que le Prophète, menacé par le courant omeyyade, fut contraint de devenir un chef de guerre et fut amené à gérer la cité de La Mecque et l'ensemble de l'oumma. Les textes fondateurs de l'islam contiennent dès lors une grande part de directives concernant la gestion du temporel.
Cette empreinte d'un "temporel sacré" est une caractéristique essentielle de l'islam. A l'inverse, le christianisme n'a émis à l'origine aucune prétention d'intervenir dans le domaine séculier, et ce n'est qu'en envahissant Rome que cette prétention est née. Elle ne découle pas des textes fondateurs de cette religion. Elle peut donc, souvent à regret il est vrai, se résoudre à renoncer à s'introduire dans la gestion d'un Etat et se contenter de veiller à la bonne conduite de ses fidèles, bons citoyens d'un Etat laïque qui leur accorde la pleine liberté de gestion de leur domaine spirituel.
Ce constat m'amène à estimer nécessaire d'aborder un sujet qui a été fort peu développé durant ces deux journées. On a beaucoup parlé du ressenti de la communauté musulmane immigrée en Europe, et cela correspond bien au projet de ce colloque. Mais il est tout aussi essentiel de percevoir le ressenti de la société d'accueil, condition de l'apaisement de tensions éventuelles.
J'insiste fort sur le fait que ce que je vais dire ne représente pas nécessairement mon propre avis. J'exposerai ce ressenti de la société d'accueil en tant qu'observateur "académique" du phénomène.
L'islam pose problème à une grande partie de la population d'accueil en ce qu'il a, selon elle, une tendance assez irrépressible à s'organiser en une communauté homogène même s'il est - comme toute religion non centralisée - traversé par des courants très contrastés. Cette communauté homogène présenterait pour nombre d'Européens une attitude peu encline à s'informer des us, des coutumes et de la culture de la société d'accueil. Par voie de conséquence, on observe une frustration chez cette dernière de devoir consentir à apprendre la richesse mais aussi "l'étrangéité" de la civilisation immigrée sans être honorée d'une démarche de réciprocité.
La société d'accueil souligne souvent que les immigrants italiens, portugais, espagnols, grecs arrivés dans le Nord industriel de l'Europe se sont harmonieusement mélangés aux populations locales, car également chrétiennes ou adeptes de la libre pensée adogmatique, et cela sans pour autant perdre aucunement leur culture propre.
Mais tout observateur constatera que la civilisation musulmane plongée dans un contexte européen fort dissemblable suscite un malaise. Et que ce malaise est réciproque, comme beaucoup d'intervenants aux débats de ce colloque l'ont exprimé parfois avec "ardeur".
Et l'on constate - je répète ici que je ne fais que refléter le ressenti de la société d'accueil et non mon opinion personnelle, car l'on m'a demandé de n'être qu'un témoin, qu'un rapporteur - que la ferveur spirituelle de l'islam, une ferveur très encadrée par un enseignement des certitudes intangibles de son sacré figé dans un écrit immuable, accroît ce malaise. En effet, cette ferveur détonne dans une Europe où la tolérance réciproque est fondée sur une lutte fort longue menant à un apprentissage à la relativité des convictions exprimées par les citoyens.
Les acquisitions de cette lutte?
- L'égalité entre les hommes et les femmes, ces dernières ayant acquis l'autonomie de leur esprit, de leur corps et de leurs finances.
- L'autonomie de la science. A cet égard, je relève la consternation de la société belge apprenant que 84% des étudiants musulmans de l'Université libre de Bruxelles se déclarent partisans du créationnisme à l'image des protestants évangéliques américains et de leurs émules.
- Une justice unique applicable à tous sans discrimination. Toute autre est proscrite, notamment la justice communautarisée, dans la majorité des Etats européens. Afin d'éviter des cloisonnements culturels et cultuels et les contraintes claniques forçant à y recourir.
- L'autonomie de la raison et de la conscience, ce qui rend possible et respectable l'exercice de la libre pensée fort peu prisée dans le reste d'un monde majoritairement religieux, au sein duquel elle est parfois même persécutée.
- L'acceptation de l'homosexualité, considérée comme un simple état naturel minoritaire mais non plus comme un vice coupable.
- La légalisation de l'euthanasie et de l'avortement. Il est essentiel de souligner qu'en Europe, cette structure ouvrant à l'autonomie du choix individuel n'impose rien à ceux qui n'entendent pas déroger aux valeurs "supérieures", selon eux, du sacré. Conception s'inscrivant à l'inverse des consignes impératives des religions qui entendent gouverner la sphère privée des individus selon les différents principes émanant de leur révélation respective.
On peut aisément concevoir que cette Europe laïcisée déclare ne pas vouloir retomber dans un réseau de contraintes d'un sacré s'estimant détenteur d'une éthique de nature divine.
Et je relève également que ce qui inquiète ainsi, tout particulièrement,la laïcité européenne est l'alliance qui se dessine entre toutes les religions pour reconquérir au sommet de l'Union européenne l'influence qu'elles ont perdue au sein des Etats, c'est-à-dire la pénétration des valeurs du spirituel dans la gestion du temporel, au point de pouvoir peser sur les choix de l'éthique sociétale. Déjà actuellement des consignes de refus d'obéissance aux lois déclarées iniques émanent de grands chefs religieux.
Il est éclairant de constater que le pape Benoît XVI a ainsi proposé à la mouvance islamiste dite modérée de l'AKP turc une alliance pour lutter contre ce qu'il a appelé le "laïcisme" de certains Etats. La France de la loi de 1905 établissant la neutralité de l'Etat est évidemment particulièrement visée, cette France qui prône la neutralité laïque maximale de l'Etat et la primauté absolue des textes légaux votés démocratiquement.
L'on constate à cet égard que des courants spirituels fondamentalistes critiquent précisément les bases mêmes du jeu démocratique permettant l'exercice du pouvoir par une majorité de citoyens trop ouverts à une "modernité" de comportement s'opposant aux prescrits coulés à jamais dans l'airain du sacré.
Le malaise est donc très palpable en Europe lorsque s'établit en quelque sorte une densité de pensées du religieux incompatible avec la densité de la majorité de la société civile démocratique. Comme l'huile ne se marie pas à l'essence, et empêche le moteur de tourner paisiblement. Quand il consent encore à tourner.
A ce propos, le recteur de la célèbre Université Al-Azhar du Caire, monsieur el-Tantaoui, estime que l'islam se doit de se mouler dans la structure du pays d'accueil afin d'y vivre en harmonie, et que ce pays doit en retour respecter le libre exercice de la spiritualité de l'islam.
Superbe conception, estiment beaucoup d'Européens, mais éminemment novatrice et soulevant la réprobation de nombre de responsables religieux musulmans. C'est dire combien la cohabitation entre le spirituel et le séculier est délicate.
Cette cohabitation exige, selon moi, une ouverture des deux camps, le religieux et le laïque.
Plus que la tolérance, elle exige une connaissance approfondie des mécanismes de pensée de chacun qui, seule, engendre le véritable respect de l'autre, ouvre l'accès à la confiance mutuelle, voire même à l'amitié.
Le dialogue, encore et toujours, et la réciprocité dans le désir de comprendre et d'apprécier les valeurs de l'autre.
Voilà la clef d'un équilibre source de bonheur d'un peuple uni en ses variétés.
Que conclure?
Ma conclusion s'exprime par ma seule présence parmi vous.
J'ai voulu vous apporter ma sincère admiration pour l'effort entrepris sous l'égide de Sa Majesté Mohammed VI. Le Maroc bénéficie en Europe d'une estime considérable, tant son ouverture à la dynamique méditerranéenne est appréciée. Cette politique généreuse s'inscrit résolument dans la recherche d'une restauration de l'époque où l'Andalousie rayonnait de la tolérance et du savoir musulman. Alors prévalait la sagesse et non la méfiance ou la haine parmi tous les hommes de bien.
Et Fès même est réputée pour ses activités culturelles internationales qui se veulent être un pont entre les rives du Nord et du Sud.
Ma conviction est que la paix du monde ne pourra venir que d'une alliance de tous les modérés, de tous les généreux de chaque clan de pensée, qui se donneront la main après avoir mis à l'écart leurs propres excessifs.
Votre pays est un modèle d'alliance paisible dans un monde où, ailleurs, tout dialogue est souvent assassiné.
Puisse l'Europe comprendre la chance qu'elle a que vous existiez pour forger un islam capable d'aimer et de se faire aimer dans un contexte de fraternité entre croyants et non-croyants.
La gestion du culte musulman en France est un cas d'école en matière du droit des cultes en Europe en général et en France en particulier.
Le cheminement de l'institutionnalisation de l'islam en France est un laboratoire pour une nouvelle régulation du culte en Europe.
Cette institutionnalisation a connu différentes phases dans lesquelles les autorités publiques françaises comme les autorités religieuses musulmanes ont joué un rôle prépondérant. Il a fallu d'une part mettre à l'épreuve la laïcité française pour voir sa capacité à intégrer une religion récente qui n'était pas prise en compte en métropole lors de la promulgation de la loi 1905, loi de séparation entre l'Etat et l'Eglise, et d'autre part juger de la capacité du culte musulman à s'intégrer dans une république laïque.
Il a fallu aussi pour les musulmans faire la distinction entre la croyance qui est propre à chacun et la gestion du culte qui nécessite une prise en considération des autres acteurs institutionnels et civiques.
Les débats soulevés par la présence de l'islam et les problématiques que pose la pratique religieuse ont démontré aux récalcitrants l'esprit libéral de la laïcité et les possibilités d'ouverture et d'adaptation à de nouvelles situations. De leur côté, les pouvoirs publics ont su accompagner, dans le respect des lois, le culte musulman dans son cheminement vers l'institutionnalisation.
La construction de la grande mosquée de Paris dans le contexte de l'après-guerre et l'entente des pouvoirs publics avec les autorités religieuses catholiques étaient l'élément déclencheur d'une nouvelle approche envers le culte musulman. L'inauguration de la mosquée par le Sultan Moulay Youssef était un autre élément fondateur et une reconnaissance de l'autorité religieuse du Sultan au sein de la France.
Les différentes initiatives individuelles des fédérations musulmanes ou des autorités publiques pour imposer des représentants, si elles n'ont pas pu concrétiser l'institutionnalisation de l'islam français ont eu le mérite en revanche d'enclencher la réflexion et de défricher le terrain.
La nécessité d'une action concertée s'est imposée. Elle a débuté avec la création en 1989 par Pierre Joxe, alors ministre de l'Intérieur, chargé des Cultes, du Conseil de réflexion sur l'islam (CORIF) qui a réuni des notables de la communauté musulmane aux côtés de responsables des mosquées.
L'un des résultats essentiels de l'initiative du CORIF était, en plus d'identifier les acteurs principaux du champ religieux et de lancer la réflexion sur les questions de la gestion cultuelle musulmane, la mise en place d'un dispositif permettant aux soldats musulmans de l'armée française d'avoir des barquettes de nourriture halal. Ceci est très significatif car le secteur le plus régalien de l'Etat et le plus sensible, celui de l'armé, a démontré sa capacité à répondre aux besoins spécifiques de son corps pour le prémunir d'un sentiment d'inégalité et de marginalité.
Après l'arrêt des travaux du CORIF, plusieurs années se sont écoulées sans une politique véritablement structurée envers le culte musulman. La France qui a vécu au milieu des années 90 une vague d'attentats a mis en veille son engagement pour une institutionnalisation concertée de l'islam et la mosquée de Paris est ainsi devenue l'interlocuteur privilégié.
En 1998 et après l'échec de la création par Jean Pierre Chevènement d'un institut de théologie musulmane, ce dernier entamera une autre démarche et a choisi pour la désigner un mot arabe « al-istichara », la Consultation.
Ce qui caractérise la Consultation par rapport aux autres démarches est qu'elle a privilégié le traitement juridique de la question à la place d'un traitement sociologique ou philosophique. On retrouve ainsi l'esprit de la laïcité française qui est plus un cadre juridique régulateur qu'un cadre culturel. Car au final ce sont les textes qui définissent la place du religieux et les relations qu'il doit avoir avec les institutions de l'Etat. De cette Consultation est sorti un texte qui définit le cadre juridique de l'islam français, ses droits et ses obligations. Ce texte a inscrit dans son préambule le respect de la charte des droits de l'homme dans sa totalité y compris les questions relatives au changement de la religion et de l'égalité entre homme et femme.
Si le schéma général du futur Conseil Français du Culte Musulman a été défini dans sa globalité pendant la phase de la consultation, il a fallu un certain pragmatisme et un certain engagement pour la mise en place des structures. L'engagement volontariste et l'investissement personnel de Nicolas Sarkozy, alors ministre de l'Intérieur, pour l'institutionnalisation de l'islam ont donné une nouvelle tournure à la question privilégiant en cela une démarche démocratique et participative. Le cadre juridique des Conseils Régionaux du Culte Musulman (CRCM) a été mis en place et un processus électoral consensuel, basé sur la superficie des lieux de culte, a été adopté pour élire les représentants du culte musulman dans le respect de la diversité des différentes composantes de l'islam de France.
Cinq ans après la mise en place du CFCM, ce dernier, malgré les faibles moyens dont il dispose et les difficultés qu'il rencontre, a acquis une crédibilité au sein des lieux de culte. Plus de 85% des lieux de culte musulmans y adhérent et les pouvoir publiques locaux et nationaux considèrent aujourd'hui le CFCM comme le représentant légal du culte musulman en France. Ceci, bien sûr, en plein conformité avec l'esprit de la loi 1905.
Pour conclure, l'institutionnalisation de l'islam, devenu partie intégrante du paysage français, nous impose aujourd'hui de déterminer nos priorités afin de répondre aux sollicitations des musulmans de France.
Ces principales sollicitations sont notamment la construction des mosquées, la question des carrés musulmans dans les cimetières, le respect des règles de l'abattage rituel, l'organisation du pèlerinage, les services d'amôneries dans l'armée, les hôpitaux et les prisons, la défense de l'image de l'islam et des musulmans dans les médias, et la formation des cadres religieux (imams, aumôniers, sacrificateurs, etc.).
L'initiative de bénéficier de structures de formation déjà existantes, comme l'Institut catholique de Paris, permet de répondre à quelques besoins relatifs à la connaissance de la société et de la culture française en attendant la mise en place d'un institut de formation autour duquel s'accorderait les différentes composantes de l'islam de France.
La formation des cadres religieux devra, également, prendre en considération l'origine de la majeure partie de la communauté musulmane dont le rite principale est le malékisme et la doctrine est celle de l'ach'ârisme qui réserve une grande place à la démarche soufie sunnite.
J'espère que ces élements de réflexion ont apporté un éclairage sur l'expérience de l'organisation du culte musulman en France, ainsi que sur la mission et le rôle du CFCM comme instance représentative du culte musulman.
1. Who is a Muslim?
Is being a Muslim within the Western context (exclusively) a form of religious affiliation or (also, or even mainly) an ethnical concept comparable to that of the concept "Jew" as it functioned in the West for instance though the 19th and early 20th centuries?
Madame la Ministre du Développement Social, de la Famille et de la Solidarité
Monsieur le Président du Conseil de la Communauté Marocaine à l'Etranger
Mes chers (ères) amis (es) et collègues présidents et présidentes des associations de femmes
Mesdames et Messieurs
Permettez-moi tout d'abord de féliciter le Conseil de la Communauté Marocaine à l'Etranger, en la personne de son président, Mr El Yazami, ainsi que toute son équipe, collaboratrices et collaborateurs, pour l'organisation de cet événement qui constitue une première rencontre des femmes marocaines du Monde.
A cet effet, je rejoindrais volontiers les organisatrices et les organisateurs de cette rencontre pour vous féliciter de l'engouement et l'enthousiasme qui ont imprégné vos débats et discussions.
Mesdames et Messieurs
Je ne serai pas le seul à vous énumérer combien d'étapes a traversé notre pays dans la voie de la promotion des Droits de la Femme.
Et même le contexte dans lequel vous vous êtes réunis, ces jours-là, coïncide la levée de toutes les réserves du Maroc par rapport à la Convention Internationale de l'élimination de toutes les formes de discrimination à l'égard des femmes (CEDAW).
Ce nouvel engagement et ce positionnement progressiste vis-à-vis de la question féminine, prononcé par Sa Majesté le Roi Mohammed VI dans son message historique adressé au Conseil Consultatif des Droits de l'Homme, à l'occasion du 60ème anniversaire de la déclaration Mondiale, constitue une nouvelle étape que notre pays a franchi dans le processus de l'affranchissement socio-économique des femmes.
Votre rencontre a été honorée par un intérêt royal et une lettre royale vous a été destinée portant un message fort d'encouragement mais aussi une invitation à édifier un solide cadre de partenariat entre les instances qui représentent les femmes marocaines dans le monde tout en considérant nos causes nationales comme tronc unique de vos projets d'action.
Et nul n'ignore la valeur de ce nouveau positionnement national et l'impact positif qu'il y'aurait sur le statut de la femme marocaine en tant qu'actrice plutôt que sujette de développement.
Et je comprends profondément le souci actuel, surtout exprimé par les associations de femmes, sur les dispositions instrumentales et institutionnelles que le Maroc devrait prendre et mettre en œuvre pour assurer l'ancrage et l'enracinement de cette volonté politique qui vise l'instauration de l'équité et l'égalité entre les sexes dans tous les domaines.
Mais je suis de l'avis de celles et ceux qui considèrent la question de l'égalité des sexes, non seulement dans sa dimension conventionnelle et législative, mais aussi dans sa dimension sociétale, culturelle et pédagogique.
Mesdames et Messieurs
Permettez-moi de cerner ma brève allocution autour des défis que vous avez, sans doute, dégagés, et qui endiguent l'instauration complète d'une équité et égalité entre les sexes :
Il y'a d'abord l'enjeu de l'amélioration de la représentativité politique des femmes et la consolidation de leurs places dans les postes de prise de décision. Je ne nie point que notre pays a passé des étapes avancées dans ce sens, et je ne vous cache pas ma grande satisfaction de travailler aux côtés de femmes ministres qui ont montré d'un degrés d'efficience dans le traitement de questions politiques épineuses relative au social, à la santé, à l'éducation, à la jeunesse, à la culture et l'énergie...
Mais l'enjeu le plus grand est celui de la promotion du rôle politique des femmes dans la gestion communale et régionale. Si nous avons gagné des points importants au niveau de l'amélioration de la position politique centrale de la femme, sa position locale reste à consolider. Et déjà le défi de hausser le taux de représentativité locale des femmes élues de 0.54% à 12% dans les élections communales de juin 2009, est un défi important et significatif même si nous le jugeons insuffisant. Le chantier de la promotion de l'action politique féminine dans la région est à mon avis parmi les plus grands chantiers de la prochaine décennie.
Le deuxième défi est économique. Et apart les avancées réalisées au niveau de l'amélioration de la contribution économique des femmes, en tant que chefs d'entreprises, de cadres de gestion et d'entrepreneuses, le travail féminin en général est qualitativement limité.
Les indicateurs dont nous disposons sur la situation de la femme dans le monde du travail laissent penser aux nombres importants de chantiers qu'il faudrait ouvrir pour, premièrement reconnaître le rôle des femmes dans la production économique, et deuxièmement améliorer cette productivité.
Seulement 27.2% des femmes sont actives et plus de 70% des femmes travailleuses n'ont aucun diplôme et plus de 59% de femmes actives occupées travaillent dans des secteurs informels qui sont en marge de tout réajustement.
De ce constat, je passerai au troisième défi qui est justement celui de la qualification professionnelle de nos ressources humaines dans un système de formation professionnelle qui a pris le pari de s'adapter rapidement à l'environnement économique émergent en dotant celui-ci de l'énergie humaine nécessaire pour son évolution.
Le Plan d'urgence de la Formation Professionnelle que nous avons présenté à Sa Majesté le Roi Mohammed VI, se donne l'objectif de former plus de 750.000 lauréats dans les secteurs économiques liés aux grands Plans de Développement tels que Emergence, le Plan Vert, le Plan Azur et sa vision 2010. et je suis très confient aux futures générations de techniciens et praticiens et les futurs lauréats de ce Plan de Formation dont une grande partie est constituée de jeunes femmes qui ont opté pour la qualification professionnelle comme moyen d'intégration socio-prefessionnelle.
Croyez-moi que, à part les branches de la BTP, de l'Agriculture et les Industries Mécaniques qui sont toujours masculinisées, les autres branches de l'Offshoring, des Services, de la Communication et de l'Industrie de Pointe vont connaître des taux élevés de féminisation d'ici 2012.
Et pour consolider ce processus de féminisation du système de la formation professionnelle, et consolider la position de la femme dans le monde du travail, le Ministère de l'Emploi et de la Formation Professionnelle a initié un changement institutionnel profond en faveur de la culture Genre par la création de Points Focaux Genre dont la mission principale est d'établir une stratégie pour l'institutionnalisation de cette approche des droits de l'homme dans l'organigramme et les programmes du département. Et la première étape opérationnelle serait l'élaboration d'un Audit-Genre comme outil de diagnostic et de prospection.
Mesdames et Messieurs
Je finirai mon allocution par vous remercier d'avoir choisi l'axe des médias et de la culture comme grands leviers de changement en faveur de la femme.
Et j'exprime la disposition et l'engaement non conditionnée, de notre département pour la concrétisation des différentes recommandations en relation avec les domaines de notre intervention.
Merci pour votre attention
Jamal Rhmani
Le présent exposé a pour but d'expliquer le cadre juridique dans lequel s'inscrit le cours de religion islamique en Belgique, il rappelle quelques uns de ses objectifs et montre comment ce cours au même titre que les autres cours philosophiques joue un rôle majeur pour atteindre les objectifs que s'est fixé le système éducatif Belge.
Introduction
L'introduction du cours de religion islamique est la conséquence de l'adoption de la loi du 19 juillet 1974 qui reconnaissait les administrations chargées de la gestion du temporel du culte islamique. Par cette loi, l'islam se voyait ainsi attribuer un statut juridique de droit public au même titre que les autres cultes reconnus en Belgique. L'enseignement de la religion islamique dans le cadre de l'école officielle commença à se mettre en place à partir de 1975. La loi du 20 février 1978 modifiant la législation du 29 mai 1959 et celle du 11 juillet 1973, dite du « pacte scolaire », reconnaissait officiellement l'enseignement de la religion islamique.
Un Décret pour combler un vide juridique
L'absence d'un statut pour les enseignants de religion islamique faisait que le dossier de l'enseignement était le plus souvent géré de manière empirique et pragmatique. Cela était dû, pour une grande part, à la non existence pendant 25 ans d'un Organe chef de culte. En outre, de 1974 à 1999, le dossier de l'enseignement fut l'objet d'une administration plurielle et hétérogène : Centre Islamique et Culturel de Belgique (1975-90), Conseil des Sages (1990-92), Comité technique (1992-94), EMB provisoire (1994-99). Les mandats étaient provisoires et les prérogatives restreintes.
Le culte islamique reconnu en 1974 ne sera institutionnalisé qu'en 1999. En effet, le Roi ne reconnaîtra, officiellement, l'organe chargé de la gestion du temporel du culte musulman, sa composition et ses prérogatives, que par l'arrêté royal du 20 mai 1999. Aussitôt, le 8 juin 1999, un arrêté du Gouvernement de la Communauté française annexé à l'A.R du 25 octobre 1971 définit dans son annexe la liste des titres requis pour l'enseignement de la religion islamique par degré d'enseignement. Les enseignants de religion islamique disposent enfin d'un statut qui détermine les conditions de désignation à titre de temporaire, l'admission au stage et la nomination à titre définitif. Il faudra encore attendre l'année 2002 pour que le gouvernement de la Communauté Française promulgue un Décret (Décret du 27 mars 2002) pour que le processus de régularisation et de reconnaissance se mette en place avec particulièrement la désignation par le Ministère de l'enseignement des inspecteurs chargés de contrôler ce cours et garantir à l'état son organisation dans le cadre légal et institutionnel. Ces inspecteurs sont en outre chargés de : (A.R du 14 décembre 1976, article 7).
Dans les établissements d'enseignement de l'Etat, la mission des membres du service d'inspection consiste en particulier à :
1° conseiller les membres du personnel qu'ils visitent, donner des avis sur leur activité et leur valeur et veiller à leur information et à leur perfectionnement;
2° veiller à ce que les établissements qu'ils visitent puissent remplir d'une manière adéquate et complémentaire leur mission d'éducation au sein de la région où ils sont implantés, et effectuer, dans ce but, en accord avec la direction générale compétente, toute étude, enquête ou recherche;
3° surveiller le niveau des études et en assurer le progrès;
4° conseiller dans le choix et l'usage des méthodes et des ouvrages didactiques;
5° contribuer à l'élaboration du programme des cours et des grilles horaires, ainsi qu'à l'élaboration des instructions administratives s'y rapportant;
6° à la demande de la direction concernée, représenter le Ministre ou le département dans les commissions, colloques ou congrès.
Cadre légal et institutionnel de l'enseignement de religion islamique
L'article 24 de la constitution (texte coordonné du 17 février 1994) et la loi du Pacte scolaire du 25 mai 1959 confèrent aux cours philosophiques la légalité de leur insertion dans le monde scolaire. Cette légalité concrétise et organise l'exercice réel des libertés proclamées dans la déclaration des droits de l'homme (art 20 § 2) et la convention internationales des droits de l'enfant.
La constitution : Art. 24
"§ 1er. L'enseignement est libre; toute mesure préventive est interdite; la répression des délits n'est réglée que par la loi ou le décret.
La communauté assure le libre choix des parents.
La communauté organise un enseignement qui est neutre. La neutralité implique notamment le respect des conceptions philosophiques, idéologiques ou religieuses des parents et des élèves.
Les écoles organisées par les pouvoirs publics offrent, jusqu'à la fin de l'obligation scolaire, le choix entre l'enseignement d'une des religions reconnues et celui de la morale non confessionnelle."
Loi du pacte scolaire, 29 mai 1959 :
"Article 8. - Dans les établissements officiels ainsi que dans les établissements pluralistes d'enseignement primaire et secondaire de plein exercice, l'horaire hebdomadaire comprend deux heures de religion et deux heures de morale.
Dans les établissements libres subventionnés se réclamant d'un caractère confessionnel, l'horaire hebdomadaire comprend deux heures de la religion correspondant au caractère de l'enseignement.
Par enseignement de la religion, il faut entendre l'enseignement de la religion (catholique, protestante, israélite, islamique ou orthodoxe) et de la morale inspirée par cette religion. Par enseignement de la morale, il faut entendre l'enseignement de la morale non confessionnelle.
Le chef de famille, le tuteur ou la personne à qui est confiée la garde de l'enfant est tenu, lors de la première inscription d'un enfant, de choisir pour celui-ci, par déclaration signée, le cours de religion ou le cours de morale.
Si le choix porte sur le cours de religion, cette déclaration indiquera explicitement la religion choisie.
Le modèle de la déclaration relative au choix de la religion ou de la morale est arrêté par le Roi. Cette déclaration mentionne expressément
a) la liberté entière que la loi laisse au chef de famille;
b) l'interdiction formelle d'exercer sur lui une pression quelconque à cet égard et les sanctions disciplinaires dont cette interdiction est assortie;
c) la faculté laissée au chef de famille de disposer d'un délai de trois jours francs pour restituer la déclaration dûment signée."
La Communauté Française organise un enseignement qui est neutre. La neutralité implique notamment le respect des conceptions philosophiques, idéologiques ou religieuses des parents et des élèves.
Les écoles organisées par les pouvoirs publics officiels offrent, jusqu'à la fin de l'obligation scolaire (fin de l'enseignement secondaire), le choix entre l'enseignement d'une des religions reconnues et celui de la morale non confessionnelle. (Article 24, § 1er).
Chaque établissement de l'enseignement officiel organisé ou subventionné par la Communauté Française, la Communauté Néerlandophone ou la Communauté Germanophone est tenu de répondre à toute demande (même isolée) d'organisation d'un cours philosophique.
L'enseignement religieux dispensé dans les réseaux d'enseignement officiel présente des spécificités inscrites dans un cadre légal régi par les Décrets qui définissent les missions prioritaires de l'enseignement et la neutralité inhérente à cet enseignement.
Chaque réseau d'enseignement s'est également assigné un projet éducatif. Tous les cours organisés par l'enseignement officiel -en ce compris le cours de religion islamique- doivent respecter ce cadre légal et ces projets éducatifs.
Quelques extraits :
Le Décret définissant les missions prioritaires de l'enseignement fondamental et de l'enseignement secondaire et les structures propres à les atteindre (24 juillet 1997). Ce dernier a assigné quatre missions prioritaires à l'école (a rticle 6) :
- Développer la personne de chaque élève.
- Rendre les jeunes aptes à prendre une place active dans la vie économique, sociale et culturelle.
- Les préparer à être des citoyens responsables dans une société démocratique, solidaire, pluraliste et ouverte aux autres cultures,
- Assurer à tous des chances égales d'émancipation sociale.
Le Décret définissant la neutralité de l'enseignement (31 mars 1994)
l'article 1 Stipule que :
" Dans les établissements d'enseignement organisés par la Communauté, les faits sont exposés et commentés, que ce soit oralement ou part écrit, avec la plus grande objectivité possible, la vérité est recherchée avec une constante honnêteté intellectuelle, la diversité des idées est acceptée, l'esprit de tolérance est développé et chacun est préparé à son rôle de citoyen responsable dans une société pluraliste."
Le Décret organisant la neutralité inhérente à l'enseignement officiel subventionné et portant diverses mesures en matière d'enseignement (17 décembre 2003) précise qu' «aucune vérité n'est imposée aux élèves, ceux-ci étant encouragés à rechercher et à construire librement la leur » chap 1er. Art4 §4.
Le projet pédagogique et éducatif de la Communauté Française en matière d'enseignement rappelle (§3) que « dans le réseau de la Communauté française, l'ouverture à tous et la neutralité créent un contexte des plus favorables pour développer la solidarité, le pluralisme et l'intérêt pour les diverses cultures en présence.
Le cloisonnement entre options philosophiques, religieuses et politiques y est fermement refusé. Celles-ci coexistent dans l'environnement quotidien des jeunes ».
Le projet éducatif et pédagogique du réseau officiel neutre subventionné rappelle enfin (§2) que « les écoles du réseau officiel neutre subventionné [...] encouragent l'ouverture d'esprit, et veulent développer la capacité de remise en question, de créativité, d'innovation ainsi que l'aptitude au changement. Elles forment à la confrontation des points de vue, sans à priori, dans un souci permanent d'honnêteté intellectuelle ».
Un enseignement de religion spécifique au milieu scolaire
L'Islam est devenu l'une des composantes du paysage culturel et religieux de la Belgique, l'enseignement de cette religion et de la morale qui s'en inspire est mis au service de l'élève en dehors toute sorte de tutelle malveillante et loin des démarches d'instrumentalisation de tous bords.
L'enseignement de la religion islamique a une approche qui prend en considération la manière dont les novelles générations vivent leur appartenance philosophique dans une société plurielle. A cet égard, toutes les religions monothéistes, le judaïsme, le christianisme et l'islam, s'accordent sur le fait que « la religiosité n'empêche aucunement l'individu de vivre son époque tout en observant les principes de sa propre religion ». Il est don bon de souligner que l'histoire de l'Islam a démontré que les manières d'être musulman varient très substantiellement en fonction des cultures et histoires des peuples.
C'est dans cette perspective d'adaptation contextuelle que s'inscrit le cours de religion islamique. Le cours vise un enseignement qui tient compte à la fois d'une authentique lecture des textes et des exigences de notre époque. Il privilégie une approche axée sur une volonté du vivre ensemble. Celle-ci passe nécessairement par la voie d'une démarche qui prend en compte les valeurs d'échange et de respect mutuel dans une société plurielle.
Les enjeux du cours de religion islamique
Tout autant que les autres cours de religion et de morale, le cours de religion islamique permet de proposer à chaque élève « des points de repère pour son devenir personnel, des grilles d'analyse pour ses choix quotidiens. Ces cours permettent aux jeunes de se structurer et de vivre de manière réfléchie et responsable. Ils mettent en œuvre une éducation globale qui est avant tout recherche de sens et interpellation en référence aux textes, aux héritages et aux contextes culturels, qu'ils soient religieux ou laïques. Ces derniers constituent des sources d'inspiration et de créativité philosophique et spirituelles. En assurant une réflexion ouverte sur la recherche de sens et une information rigoureuse sur ces données. Les cours de religion et de morale stimulent des démarches qui développent une approche cohérente des valeurs.
Ce que les cours philosophiques ont en commun
Quelles que soient les valeurs que chacun peut évoquer dans sa différence, les inspecteurs des cours philosophiques et les membres du corps professoral partagent les mêmes idéaux :
- La dynamique de la libération, y compris la libération de la pensée, là où se produisent des phénomènes de réduction, d'appauvrissement, d'oppression et de négation de l'humain ;
- La recherche infatigable de la paix, de la fraternité, de la justice, de l'amitié et de l'amour ;
- Le développement de l'engagement démocratique par l'apprentissage du dialogue et de la tolérance dans l'estime des différences et le respect mutuel ;
- L'éducation à la citoyenneté par la reconnaissance et le respect des Droits de l'Homme et des libertés fondamentales.
Une pédagogie des compétences
Le Décret missions définit la compétence comme : l'aptitude à mettre en œuvre un ensemble organisé de savoirs, de savoir faire et d'attitudes permettant d'accomplir un certain nombre de tâches.
Le cours de religion islamique vise à atteindre les compétences terminales suivantes :
- Etre capable de construire sa personnalité. donner un sens à sa vie
- S'ouvrir au monde
- S'engager et s'investir de manière responsable
- Effectuer une lecture dynamique et synthétique de la pensée musulmane
Compétences disciplinaires
- 1er degré
Au départ d'une situation vécue du passé ou du présent et/ou de références ou de support divers (texte coranique et prophétique, figures marquantes de l'islam, symboles, pratiques cultuelles...), poser une ou plusieurs questions sur le sens lié à l'être et à son identité. Montrer en quoi cela peut influer sur l'agir de la personne.
A partir d'une situation problématique, effectuer une comparaison selon un certain nombre d'éléments d'analyse sur base d'un texte coranique, texte prophétique, fait historique ou vécu, etc.
- 2ème degré :
En fonction d'une question déterminée, faire une analyse argumentée s'appuyant sur le référentiel islamique afin de se positionner dans un esprit d'ouverture.
Sur base d'un phénomène de société ou d'un problème actuel, poser une série de questions afin de planifier et préparer une action citoyenne en ayant recours à différents modes d'expression
- 3ème degré :
Se positionner en produisant une argumentation et une contre argumentation face à une situation problème sur base d'une lecture dynamique personnelle des références.
Sur base des références islamiques, élaborer une synthèse à partir d'une situation problème et planifier une action en vue d'engager une dynamique contextuelle.
Un cadre légal et institutionnel pour un travail commun :
Le Décret missions, le décret créant le conseil supérieur des cours philosophiques et le décret citoyenneté créent des espaces de rencontres, d'échanges, de discussions et d'engagement.
Le Décret Conseil des cours philosophiques : D 03-06-2005. M.B 29-07-2005
Art. 2.
§ 1er. Il est créé auprès du Gouvernement de la Communauté française un Conseil consultatif supérieur des cours philosophiques ci-après dénommé « le conseil ».
§ 2. Le conseil a pour mission :
1° de formuler d'initiative ou à la demande du ministre concerné, du Gouvernement ou du Parlement de la Communauté française, tout avis et proposition sur la politique générale en matière de cours philosophiques, ainsi que sur la promotion de ces cours;
2° de formuler un avis préalable à l'adoption de toute disposition décrétale ou réglementaire touchant l'organisation et le subventionnement des cours philosophiques;
3° de formuler toutes propositions relatives aux opportunités d'échanges de savoirs et de pratiques entre les différents cours philosophiques;
4° de formuler, dans le respect des spécificités de chacun et dans le cadre du décret missions, toutes propositions susceptibles d'encourager le dialogue entre les différentes religions reconnues et le cours de morale non confessionnelle et de promouvoir les valeurs communes;
5° de formuler conformément au décret, tout avis sur l'organisation d'activités organisées conjointement par les différents cours philosophiques autour de thèmes fixés par le conseil;
6° de formuler tout avis sur la présence d'initiation à la démarche philosophique et sur l'introduction d'éléments de philosophie et d'histoire comparée des religions dans chacun des cours philosophiques tel que reconnu par la loi du29 mai 1959, y compris là où un seul cours correspondant au caractère confessionnel de l'enseignement est organisé;
7° d'établir annuellement pour le ministre du Gouvernement et le Parlement un rapport d'activités sur le fonctionnement et l'organisation des cours philosophiques dans chacun des réseaux, complémentairement à la loi du 29 mai 1959.
Décret relatif au renforcement de l'éducation à la citoyenneté responsable et active au sein des établissements organisés ou subventionnés par la Communauté française
D. 12-01-2007 M.B. 20-03-2007
Article 14. -§ 1er. Le chef d'établissement dans l'enseignement organisé par la Communauté française ou le Pouvoir organisateur dans l'enseignement subventionné veille à ce qu'il soit élaboré et mis en œuvre, au moins une fois durant chaque cycle du continuum pédagogique défini à l'article
13, § 1er, du décret «Missions» et au moins une fois durant chaque degré des Humanités générales et technologiques ou des Humanités professionnelles et techniques tel que définies aux chapitres IV et V du décret «Missions», une activité interdisciplinaire s'inscrivant dans la perspective d'une éducation pour une citoyenneté responsable et active.
§ 2. Par activité interdisciplinaire s'inscrivant dans la perspective d'une éducation pour une citoyenneté responsable et active, il y a lieu d'entendre au sens du présent décret une activité requérant la mise en œuvre de compétences relevant d'au moins deux disciplines différentes et visant à promouvoir la compréhension de l'évolution et du fonctionnement des institutions démocratiques, le travail de mémoire, la responsabilité vis-à-vis des autres, de l'environnement et du patrimoine au niveau local ou à un niveau plus global.
Outre les deux disciplines visées à l'alinéa précédent, l'élaboration et la mise en œuvre des activités visées peuvent rassembler les élèves inscrits à des cours philosophiques différents sous la tutelle des enseignants chargés de ces cours œuvrant en partenariat.
Conclusion
L'École doit être centrée sur l'humain. Les cours de morale et de religions sont des lieux d'éducation qui, respectueux de toutes convictions particulières, favorisent l'intégration dans une société pluraliste. Par une action éducative cohérente, ils permettent de combattre l'indifférence, le fanatisme, le dogmatisme, l'intolérance, la violence, le négativisme et autres maux déshumanisants de notre temps.
Je termine en disant que l'Islam qui fait partie du paysage culturel, religieux et institutionnel de la Belgique n'est plus un islam transplanté comme l'écrivaient certains dans les années quatre vingt, mais bien un islam citoyen.
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