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Laicità europea: tolleranza, dialogo e identità - Marco Pieroni - Italie

mercredi, 20 mai 2009

1. Premessa

Il fenomeno religioso dà luogo all'interno della società a organizzazioni particolari i cui componenti manifestano la appartenenza ad un ordine che pretende un rango diverso rispetto a quello politico generale. La tensione che ne deriva spazia fra due estremi:

1) quello rappresentato dal modello della identificazione fra potere religioso e potere civile,

2) l'altro, conosciuto nella esperienza contemporanea di alcune società occidentali, consistente nella esclusione del fenomeno religioso dall'ambito del potere civile.

Nel mondo medioevale e nell'epoca premoderna il fondamento storico della "laicità" può rinvenirsi nel riconoscimento - teorizzato dalla Chiesa a partire dalla fine del V secolo (Papa Gelasio, Lettera all'imperatore Anastasio, fine del V secolo) - che potere religioso e potere civile riguardano sfere distinte e dotate ciascuna di una propria autonomia. Ma proprio questo riconoscimento è alla radice del carattere problematico dei reciproci rapporti, in quanto le due parti "furono sì in grado di distinguere le loro sfere di competenze, a seconda che si trattasse dell'uomo «esteriore» o di quello «interiore», ma, nel rivendicare ambedue il proprio diritto sull'uomo concreto, dovettero necessariamente scontrarsi" (R. Fröehlich). Tale confronto dialettico è destinato a continuare fino a quando il fenomeno religioso e quello politico avranno luogo, sicché può affermarsi che la formula dello Stato "laico" delinea il quadro complessivo entro il quale gli ordinamenti contemporanei intendono collocare tale processo dialettico.

Il prevalere dell'orientamento affermatosi dallo Stato moderno sino a quello liberale di escludere un fondamento esterno all'ordinamento giuridico e la conseguente pretesa di fondare la propria legittimazione esclusivamente all'interno dello stesso ordinamento giuridico comportano che il rapporto fra pubblici poteri e fenomeno religioso si conforma in relazione alle peculiari modalità con le quali questo rapporto è vissuto all'interno del corpo sociale (Bertolini). Tale circostanza spiega le diverse interpretazioni del principio della laicità dello Stato, le quali, pur movendo dal presupposto comune della distinzione fra la sfera religiosa e quella civile, giungono poi a declinare il concetto in termini differenti.

In ambito europeo possono distinguersi il modello della indifferenza dello Stato verso le fedi religiose, con conseguente necessaria "neutralità degli apparati pubblici dinanzi alle istanze emergenti di tempo in tempo dalla comunità" a prescindere dalla loro intrinseca natura e dal loro contenuto, da quello della valorizzazione del principio pluralista e del recupero della specificità del fenomeno religioso in quanto tale (artt. 7 e 8, secondo comma, della Costituzione italiana).

Questo secondo modello comporta "il passaggio dalla concezione negativa della libertà religiosa ... ad una concezione eminentemente positiva" con il conseguente intervento fattivo dello Stato nella regolazione degli istituti attraverso i quali si estrinseca la religiosità dei consociati tramite "una legislazione sempre più attenta e minuziosa ... che da un lato attiva, a livello comunitario, le libertà dei singoli e dall'altro legittima le diversità, religiose ed ideologiche" (Cardia), implicando necessariamente non la neutralità dell'ordinamento, ma invece la sua apertura al radicamento di valori per la qualificazione dei suoi scopi (S. Mangiameli).

Per quanto lo stesso principio della neutralità religiosa possa assumere significati diversi (ad es. c.d. laicità tradizionale o liberale o laicità alla francese, connotata, quest'ultima, da anticlericalismo e da antireligiosità), deve ritenersi che una caratteristica comune di tale principio è quella di considerare che "le scelte religiose della persona sono senz'alcun dubbio legittime, ma rilevano solo nell'ambito privato, senza trascendere nel pubblico e nel socialmente rilevante" (Bettetini).

Di contro la laicità intesa come attitudine dello Stato a favorire e a valorizzare l'esercizio della libertà religiosa e di culto (es. c.d. laicità positiva) non esclude un ruolo delle chiese nella sfera pubblica in ragione della loro collaborazione con lo Stato (Corte costituzionale italiana, sentenza n. 203/1989) fino a promuovere l'accoglienza (es. c.d. laicità aperta) anche delle diverse forme del religioso, talora anche lontane da quelle tradizionali (Randazzo).

A ben vedere la formula dello Stato laico come Stato "neutrale" pone il problema della adesione sostanziale dell'ordinamento ad una concezione dell'individuo, problema che, secondo tale modello, si risolve, invece, presupponendo una visione fondata sul "postulato" individualistico-liberale; diversamente, la tesi della laicità come riconoscimento "attivo" del pluralismo religioso riconosce al confronto tra le diverse fedi o visioni del mondo (anche aconfessionali) la possibilità di concorrere al riconoscimento di una verità data sull'uomo.

 

D'altro canto, la definizione della laicità come principio supremo dell'ordinamento costituzionale (affermato in Italia nella citata sentenza n. 203/1989 della Corte costituzionale) scaturisce proprio dal dinamico confronto politico-sociale in riferimento ai valori della vita reale in relazione ai quali opera la stessa interpretazione costituzionale. Difatti la nozione della laicità come principio supremo non può non risentire fortemente dei modi concreti con cui nella collettività (singoli e gruppi, anche religiosi) viene avvertita la rilevanza del fenomeno religioso, il posto che esso deve occupare nella vita sociale, il senso dei rapporti fra i fedeli delle diverse confessioni fra loro, dei rapporti dei credenti con i non credenti e con la comunità nel suo insieme organizzata a Stato (Bertolini).

Infatti, la società plurale, in luogo della società religiosamente omogenea impone di ricomporre in un quadro di insieme le diverse istanze etico-culturali e trovare le regole comuni tra identità e nuove libertà, evitando il pericolo di creare comunità parallele che segnino il prevalere della fedeltà alle comunità particolari di appartenenza a discapito dello Stato.

 

A tale riguardo deve rilevarsi che lo sforzo del pensiero filosofico di fine seicento sulla "laicità" è ben rappresentato dalla Epistola sulla tolleranza di John Locke, secondo il quale "nessuna pace e sicurezza, e tanto meno comune amicizia, si potrà stabilire tra gli uomini fino a quando prevarrà lì opinione per cui l'autorità è fondata sulla grazia e la religione deve essere diffusa con la forza delle armi". La prospettiva delle dottrine di tipo lockiano teorizza una forma di indifferenza etica in cui la tolleranza sarebbe non un fine, un valore etico primario, bensì la via più adatta a garantire la sicurezza dei cittadini. Mentre una "tolleranza" di tal genere può trovare una sua giustificazione in una società monoculturale, più complessa e probabilmente insufficiente è la trasposizione di detto approccio con riferimento ad una società multiculturale.

Per questa ragione lo stesso mondo occidentale è chiamato a ripensare lo stesso concetto di "tolleranza".



2. Europa e questione islamica.

A questo riguardo va evidenziato quanto affermato nella Risoluzione sull'Islam e la giornata europea di Averroè del 16 settembre 1998 e cioè che "la società europea poggia su basi pluriculturali, plurietniche e plurireligiose che sono parte essenziale del suo patrimonio e della sua identità pluralistica" nonché sul "profondo attaccamento ai valori della libertà, del pluralismo, della democrazia e dei diritti umani, della tolleranza, del riconoscimento e del rispetto dell'altro", come anche sancito nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite.

Per questa ragione, prosegue la Risoluzione, occorre considerare che anche i valori religiosi costituiscono elemento di identificazione dei gruppi sociali, con la conseguente necessita di approfondire la reciproca conoscenza delle culture e della società mediterranea, attraverso "un dialogo inteso e continuo con i paesi islamici e i gruppi socialmente rilevanti all'interno del mondo islamico, con l'obiettivo di rafforzare e sviluppare le tendenze democratiche e pluraliste, di pervenire al riconoscimento dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani; il che implica una separazione netta fra la legge dello Stato e i precetti religiosi, condizione indispensabile per il rispetto dei diritti e delle libertà in una società multiculturale ed etnicamente composita".

Tali affermazioni sono state ulteriormente maturate e consolidate nella formulazione dell'art. 17 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (versione consolidata), laddove si afferma che "l'Unione europea rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale" e che "riconoscendone l'identità ed il contributo, l'Unione europea mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni".

L'orientamento dell'Unione europea sembra pertanto qualificabile come "laicità del dialogo" (più che dell'accoglienza, accezione che sembra evocare un improprio approccio paternalistico), che rinuncia sì a disciplinare direttamente il fenomeno religioso ma nell'intento di una istituzionalizzazione del dialogo con dette chiese e organizzazioni intende valorizzare l'inserimento anche delle comunità religiose quale quella islamica nel contesto culturale e civile dell'Unione, nel rispetto della reciproca identità.

In questo contesto i problemi cruciali con cui l'Europa deve confrontarsi sono:

1) l'immedesimazione dell'identità culturale del mondo islamico nella dimensione religiosa;

2) la non compiuta realizzazione del processo di separazione tra nozione di legge civile e legge religiosa.

 

Per promuovere l'integrazione politica e istituzionale tra le due culture, quella europea e quella islamica occorre:

1) il riconoscimento del valore primario della esperienza religiosa nella manifestazione della dinamica della società civile (accogliendo dunque l'accezione della laicità positiva o aperta);

2) affermare il primato della persona umana con il riconoscimento dei diritti inviolabili nella costruzione politica e sociale di ogni ordinamento.

 

In questo modo si ribadisce che non è lo Stato ma è la persona il centro del progetto di ogni struttura politica e istituzionale, bilanciando, per questa via, il rifiuto di approcci di negazione della espressa manifestazione della dimensione religiosa anche nella sfera istituzionale degli Stati europei.

In tale direzione si muovono le recenti Costituzioni afgana e irakena, che affermano sì il principio che la religione islamica è il credo ufficiale del singolo Stato, ma statuiscono anche la separazione della legge religiosa islamica dal dettato normativo statale. Esse, inoltre, riconoscono il pluralismo rappresentativo politico regolato da meccanismi di controllo secondo i principi della separazione dei poteri, della reciproca tolleranza, in particolare attraverso la tutela dei diritti fondamentali della persona umana (Galantini).

La centralità del rispetto della persona umana come elemento identitario dell'ordinamento comunitario, e dunque da valorizzare quale patrimonio comune anche per le comunità religiose islamiche che intendano integrarsi negli Stati dell'Unione, è ribadito anche nella Risoluzione del Parlamento europeo sulle donne il fondamentalismo del 24 ottobre 2006, laddove si afferma che "il rispetto, la promozione e la protezione dei diritti umani rappresentano l'aquis dell'Unione europea e sono una delle chiavi di cooperazione europea, così come nelle relazioni tra l'Unione europea e i suoi Stati membri e altri paesi", sicché "i diritti della donna sanciti dai trattati e dalle convenzioni internazionali non possono essere limitati né trasgrediti con il pretesto di interpretazioni religiose, di tradizioni culturali, di costumi e di legislazioni".

 

L'importanza del dialogo interreligioso ai fini dell'integrazione interculturale è sottolineata inoltre da numerosi documenti approvati a livello istituzionale comunitario ed internazionale. Nella Dichiarazione sul dialogo interreligioso e sulla coesione sociale, approvata dalla Conferenza organizzata dalla Presidenza del Consiglio dell'Unione europea nell'ottobre 2003, si afferma che il "dialogo può oggi dare un contributo significativo allo sviluppo di una società libera, ordinata e coesa, e che aiuta a superrare l'estremismo filosofico e religioso". La Dichiarazione è stata approvata e fatta propria dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea nella riunione del 12 dicembre 2003. Anche il documento finale, approvato nel settembre 2006 dalla Conferenza internazionale sul tema Dialogo interreligioso e cooperazione interreligiosa, svoltasi dopo il terzo vertice di Europa (Varsavia, maggio 2005), afferma che i "valori e i principi universali che costituiscono il patrimonio comune dei popoli e la vera fonte della libertà individuale, della libertà politica ... non devono essere in contraddizione con le tradizioni culturali e religiose del nostro continente e non devono essere contestati né messi in discussione". Infine, la risoluzione n. 59/23, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite sul tema "Promozione del dialogo tra le religioni", afferma tra l'altro "que la compréhension mutuelle et le dialogue entre les religions costituent des dimensions importantes du dialogue entre les civilisations et de la culture de la paix".

Nell'attuale trasformazione della società europea in senso multiculturale e multireligioso, particolare rilevanza poi assumono quelle iniziative volte a promuovere processi di integrazione e di inclusione delle comunità di immigrati e delle comunità religiose, in adempimento della previsione del Trattato inteso a favorire un "dialogo aperto, trasparente e regolare con le chiese e le associazioni o comunità religiose" (v. citato art. 17 Trattato sul funzionamento dell'UE).

Ma l'Unione europea o i singoli non possono sostituirsi alle confessioni religiose dettando le regole della loro organizzazione, né imporre per legge uno schema rappresentativo valido per tutti. Occorre dunque che le comunità religiose trovino in se stesse le ragioni della propria identità ed elaborino forme e strumenti della propria rappresentatività. Al riguardo, se è vero che l'Islam ha una forte tradizione unitaria dal punto di vista religioso, è anche vero che esso è connotato da una forte tradizione autonomistica che esclude strutture centralizzate o gerarchiche, sicché gli immigrati europei di religione islamica tendono ad aggregarsi in modo frammentato in ragione delle specifiche origini nazionali ed esperienze socio-religiose.

Nella difficoltà di individuare rappresentanze legittime in Italia non è stato ancora possibile concludere apposite intese ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost., con la comunità islamica, che è divenuta la seconda religione più praticata nel Paese.

Va però vista con grande favore l'approvazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione (avvenuta con decreto del Ministro dell'interno del 23 aprile 2007) elaborata con il contributo delle principali comunità di immigrati, delle comunità religiose maggiormente presenti nella realtà italiana, nonché dei componenti della Consulta per l'Islam italiano operativa presso il Ministero dell'interno (in vista di una aggregazione federativa che aspiri al riconoscimento giuridico e in prospettiva ad un'Intesa con lo Stato italiano), per rendere espliciti i principi fondamentali della persona umana riconosciuti nel nostro ordinamento, in primo luogo i principi di libertà e di tolleranza, che regolano la vita collettiva dei cittadini e degli immigrati nel rispetto delle reciproche identità.

 

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